di Mauro Ungaro*
“La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale ‘Giorno del Ricordo’ al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra, e della più complessa vicenda del Confine orientale”.
Vale la pena rileggere l’articolo 1 della legge n. 92 del 30 marzo 2004 con cui il Giorno del Ricordo venne istituito per comprendere il significato di una data che non appartiene solo alla storia del nostro Paese. E proprio per questo entra, di diritto, in quella memoria condivisa che deve essere patrimonio dell’umanità. In ogni tempo.
“Di tutte le vittime delle foibe”: una frase che ben sintetizza il dramma vissuto dalle popolazioni di quell’area mitteleuropea ed adriatica che da sempre fa da confine fra il mondo slavo e quello latino.
Il confine (cum-finis) è il luogo dove le diversità si incrociano: sta all’intelligenza degli uomini farne un luogo di incontro e non di scontro, saper superare la diffidenza e la paura del “diverso da sé” per considerare questa diversità come fonte possibile di arricchimento e crescita reciproci.
In fondo alle foibe si ritrovarono affratellati dalla violenza di un tragico destino coloro che l’idiozia delle ideologie aveva voluto rendere nemici: italiani, sloveni, tedeschi, croati… In quei “buchi neri dell’umanità” sembrava persino possibile che andasse per sempre perduta la memoria degli uomini e delle donne che vi erano stati gettati: questo volevano i loro aguzzini, come ennesimo segno di un disprezzo che non riconosceva la dignità dell’esistenza umana.
Quegli uomini e quelle donne furono uccisi due volte: la prima dalle mani dei loro simili e la seconda dal silenzio di chi aveva deciso – per convenienza politica e tornaconto personale – che su quelle scomode vicende dovesse calare l’oblio.
Quanti sono le madri, le mogli, i figli che hanno atteso e sperato per troppo tempo di avere un luogo dove recitare una preghiera per i propri figli, i propri mariti, i propri genitori? Quanti ancora oggi attendano che le porte degli archivi si aprano e il vento della giustizia diradi la polvere accumulata sui faldoni dove è registrato il destino di migliaia di scomparsi nel nulla?
Un silenzio simile è calato, però, per decenni anche sull’esodo degli italiani costretti a fuggire dall’Istria e dalla Dalmazia dinanzi ai soprusi del nuovo Governo che in quelle terre si era insediato alla fine del secondo conflitto mondiale. Anche loro subirono un doppio affronto alla propria dignità di esseri umani.
La prima quando dovettero lasciare, da un giorno all’altro, le pietre poste in riva all’Adriatico, una accanto all’altra dai loro avi, generazione dopo generazione. Pietre tangibili con cui erano state costruite le case da abbandonare ora frettolosamente ma, soprattutto, come parte di una storia personale e comunitaria che dai tempi dell’Impero romano aveva fatto di questi luoghi un preciso riferimento culturale ed artistico per tutta Europa.
Ma l’offesa più grave fu, probabilmente, il doversi sentire “stranieri in patria”; trattati come ospiti in quel Paese che era il loro, ma che non esitava a trattarli quasi da colpevoli per “essersene andati” piuttosto che da vittime.
Celebrare il Giorno del Ricordo è un dovere per il nostro Paese per onorare la memoria di quanti furono parte delle tragedie di quei giorni. Ma per farlo è altrettanto doveroso impegnarsi in quei cammini di riconciliazione e di condivisione della memoria che soli possono garantire il non ripetersi di quegli avvenimenti. Altrimenti 70 anni saranno passati inutilmente.
*Direttore di “Voce Isontina” (Gorizia)