La questione sul digiuno viene posta dai discepoli del Battista e dai farisei nel primo versetto della pericope evangelica che oggi la Chiesa ci propone. Una lunga risposta di Gesù occupa invece tutti i restanti versetti. Che di una controversia si tratti, lo evinciamo anche dal contesto più ampio, quello di Mc 2,1-3,6, e da quello che incornicia in modo più stretto il brano: in 2,15-17 gli scribi e i farisei pongono domande sul mangiare di Gesù; in 2,23-28 i farisei discutono con Gesù sul sabato e sul mangiare le spighe. Tutti questi brani hanno in comune, oltre alla presenza degli ‘avversari’, anche il vocabolario del campo semantico del mangiare/digiunare e il rapporto particolare di maestro/discepolo che lega Gesù ai suoi. L’occasione per la disputa è fornita dal digiuno che i farisei e i discepoli di Giovanni stanno in quel momento facendo.
Il terreno è di per sé pericoloso: non possiamo dimenticare che digiunare nel Nuovo Testamento viene criticato quando esprime un forma penitenziale puramente esteriore: si pensi alla parabola lucana del fariseo che in piedi, nel tempio, si vanta dicendo “Digiuno due volte la settimana” (Lc 18,12), o alle parole del Discorso della montagna: “Quando digiunate non assumete aria malinconica come gli ipocriti”(Mt 6,16). Ma Gesù questa volta non affronta il tema delle modalità da seguire per praticare un digiuno; piuttosto si sposta su un campo diverso, inaspettato: risponde in parabole. L’operazione che compie Gesù sembrerebbe essere strutturata su due livelli.Primo livello. Se la pratica del digiuno, nell’A.T. e nel giudaismo, poteva esprimere svariati significati (dal digiuno per un lutto, come quello di Davide per la morte di Saul e Giònata, in 2 Sam 1,12, al digiuno per chiedere perdono per i peccati, e così via), è vero comunque che l’astenersi dal cibo comporta sempre in qualche modo l’interrompere il normale ciclo del vivere, la quotidiana, più essenziale e più semplice relazione con la vita.
Per questo è perfettamente pertinente l’immagine che il Signore richiama nella risposta, quella della festa nuziale, comprensiva di un banchetto. Durante un pranzo di nozze non ci si può esimere dal prendere cibo, dal momento che sarebbe irrispettoso verso gli sposi; ancora di più, significherebbe disconoscere l’occasione di festa, di gioia e di vita che viene offerta ai partecipanti. Digiunare vorrebbe dire non riconoscere che la vita è lì vicina, accanto a te, alla tua stessa tavola. “Da sempre nella cultura e nella religione ebraica il banchetto era l’espressione fondamentale dell’amicizia, della festa e della pace: un banchetto alla presenza di Dio aveva concluso l’antica alleanza; un banchetto di grasse vivande (Is 25,6) sarebbe stata la festa escatologica. (…) È la festa della nuova alleanza tra Dio e il suo popolo, una festa di nozze (cfr. Mc 2,19), aperta a tutti gli uomini, nella quale però entrano solo coloro che riconoscono di aver bisogno della salvezza, i poveri, i peccatori e, più tardi, i pagani” (Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, 198).
Secondo livello. Molte volte ripresa nell’A.T., la metafora del Messia’sposo nelle parole di Gesù questa profezia si avvera: lo sposo è presente, la Chiesa è la santa sposa dell’Agnello (Ef 5; Ap 19), le nozze si stanno celebrando. Il contrasto tra le parole del Messia e il contegno dei discepoli di Giovanni non potrebbe essere più accentuato: se questi ultimi, sull’esempio del Battista, digiunavano per esprimere l’attesa del regno di Dio, Gesù e i suoi compagni stanno già celebrando la sua venuta. Il rapporto quindi è tra il “vecchio” (il vino che Luca non esita a chiamare buono: Lc 5,39) e il “nuovo” (il regno di Dio con il suo Messia), come sarà sviluppato nelle due parabole che seguono. Prima di parlare della stoffa nuova e del vino nuovo Gesù però conclude in modo strano l’insegnamento sul banchetto messianico, al v. 20: “Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno”. Si tratta del primo presagio della passione in Marco. Inserito abilmente dall’evangelista, con un procedimento di spostamento temporale prolettico, l’autore sacro accenna a qualcosa che, al tempo della narrazione, deve ancora accadere, e che viene anticipato.
Allora, sembra dire Gesù, solo allora, digiunare avrà un senso, come ci riporta Giovanni: “Ancora un poco e non mi vedrete; un po’ ancora e mi vedrete. (…) In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà”(Gv 16,16.20). Se nella festa per il banchetto messianico vi è una nota di tristezza, questo non impedisce al Messia di proseguire nella descrizione della nuova realtà che è venuta incontro agli uomini. Già nella sinagoga di Cafàrnao si era notata la novità dell’insegnamento di Gesù (“che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità” Mc 1,27).
Ebbene, ora Marco intenderebbe dire che l’insegnamento nuovo di Gesù non è puramente teorico, nozionistico, ma che è capace di cambiare le cose. Il vino nuovo (Mc 2,22), un vino “da poco fermentato” (Vanhoye), è solo un’immagine, ma che richiama a una realtà assolutamente diversa da quella esistente. Il Messia è venuto perché gli uomini possano gioire del banchetto eterno, sin da ora, qui. Così preghiamo con la colletta alternativa della Messa odierna: “O Padre, che in Cristo sposo e Signore chiami l’umanità intera all’alleanza nuova ed eterna, fa’ che nella tua Chiesa, radunata per la celebrazione del banchetto nuziale, tutti gli uomini possano conoscere e gustare la novità gioiosa del Vangelo”.