C’è stato un protagonista nel viaggio- pellegrinaggio dei Vescovi umbri in Armenia: non il monte Ararat, di biblica memoria, che con i suoi 5.000 metri e la calotta perennemente imbiancata giganteggia sulla capitale Erevan; non il paesaggio aspro degli altopiani, costellati di gole e incisi dal grande lago Sevan; non i monasteri antichi e moderni, austeri nei vari colori della pietra tufica con la quale sono costruiti in forme sostanzialmente immutate nel tempo, e che prevale anche negli interni disadorni.
Protagonista è stato il popolo armeno, la sua storia gloriosa e sofferta, le prospettive e le incognite del suo presente. Prima nazione ad aver abbracciato ufficialmente la fede cristiana nel 301, dodici anni prima dell’editto di Costantino, che dichiarerà il cristianesimo religio licita nell’Impero romano, e 79 anni prima dell’editto di Teodosio, che la eleggerà a religione di Stato.
Di tale primogenitura il popolo armeno va tuttora fiero, anche se gli è costata cara, e poche tracce di quel primo periodo sono sopravvissute alle distruzioni e alle guerre che periodicamente hanno afflitto una nazione che vive per più di due terzi dispersa nel mondo. Di tutte le persecuzioni, la più feroce è stata il genocidio perpetrato dalla Turchia negli anni della Grande guerra e costato un milione e mezzo di morti, tra quelli trucidati e quelli lasciati perire di fame e di sete nelle marce forzate e nei campi di prigionia.
Il museo di Erevan, visitato anche da san Giovanni Paolo II e da Papa Francesco, è ricco di testimonianze documentarie e fotografiche sul “grande male”, come lo chiamano. Il quale è stato tra l’altro una sorta di “prova generale” della Shoah, iniziata un quarto di secolo dopo. Adolf Hitler ebbe infatti a dire, progettando lo sterminio degli ebrei: “Chi si ricorda ancora del genocidio armeno?” (Continua a leggere gratuitamente sull’edizione digitale de La Voce).