Siamo riportati da Giovanni nel cenacolo, dove Gesù aveva celebrato l’ultima cena con i suoi e dove egli ritorna da risorto per istruire i suoi. I due lunghi discorsi che l’evangelista riporta sono un misto di ricordi di quella sera, ma anche delle sere successive che Gesù aveva passato da risorto con i discepoli per ricordare loro le cose già dette e non bene assimilate. Tutti i commentatori sono concordi nel ritenere che il Gesù che parla nella cena è quello uscito vivo dalla tomba, più che il Gesù che si avvia a morire. Giovanni ha ripreso i discorsi della cena alla luce della catechesi svolta da Gesù dopo Pasqua, con quella maggiore comprensione che lo Spirito del Risorto gli aveva donato. Due sono i concetti che egli sviluppa in questo breve testo oggi ascoltato: la glorificazione di Gesù e il comandamento nuovo, due temi apparentemente diversi, ma legati strettamente tra loro nella mente di Gesù. Cerchiamo di capire come. Ormai Giuda è uscito dal cenacolo ed è stato risucchiato dall’oscurità della notte che aveva già nel cuore. Perdere quel discepolo, caro quanto gli altri, è per Gesù uno smacco e un mezzo fallimento.
Quel fallimento sarebbe diventato completo fra qualche ora con la cattura, la passione e la sua morte in croce. Gesù ne è consapevole, tanto che ha tentato di renderne consapevoli anche gli altri apostoli con il segno umiliante della lavanda dei piedi. Come sempre, ad intuirne la portata tragica era stato Pietro, che aveva tentato di rifiutare quel gesto del maestro nel tentativo maldestro di scongiurarlo. Gesù gli aveva fatto capire che, se non accettava quella sua umiliazione, non avrebbe avuto posto tra i suoi seguaci. Fosse pure uscito dal cenacolo come Giuda! Parole di una gravità immensa, che avevano giustamente spaventato Pietro. Quel gesto da schiavo messo in atto da Gesù era sì un gesto esemplare che i suoi seguaci avrebbero dovuto imitare, ma ancor più era un gesto profetico del servizio estremo che Gesù stava per compiere con il dono della sua stessa vita attraverso una morte umiliante come quella di croce, un morte da schiavi.
Tutto questo, nella logica umana, era terribilmente vero. Ma nel progetto misterioso di Dio quella morte, sceneggiata nel cenacolo con il segno dell’umiliazione, era l’inizio della glorificazione del Figlio dell’uomo. La cena è introdotta da Giovanni proprio con questo annuncio di gloria: “Sapendo era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, Gesù, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine” (13,1). Stava iniziando il suo passaggio da questo mondo a quello di Dio, dal mondo dell’umiliazione al mondo della gloria. Quando erano venuti a cercarlo alcuni greci, Gesù aveva esclamato: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”. E aveva spiegato: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, resta solo; se invece muore porta molto frutto”‘ (12,23-24). Con la Passione ha inizio la glorificazione del Figlio dell’uomo che dalla terra sale al cielo, gradino dopo gradino. Non è una scala in discesa libera verso la morte, ma è una scala in salita verso la risurrezione e la vita, perché è una scala percorsa per amore e con amore inaudito.
Dal sommo di quella scala Gesù oggi ci ripete: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui”‘. Solo il Risorto poteva dire queste cose in modo da essere ben capito. La sua gloria è il risultato del suo cammino di croce. Ma, attenzione, un cammino di croce che è un cammino di amore. A Gesù nessuno ha tolto la vita, è lui che l’ha donata con questa connotazione: avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino all’estremo limite umano che è la morte; non c’è amore più grande di colui che dona la vita per i suoi amici. Ecco perché la glorificazione di Gesù è intrecciata in maniera inestricabile col suo amore. Allora egli può parlare di “comandamento nuovo” mai fino ad ora promulgato. L’amore non si comanda, si dona liberamente e spontaneamente; non è un comando, è un’esigenza, un bisogno. Qui il termine ‘comandamento’ ha il significato di “esigenza”, necessità che nasce dall’interno, non che viene imposta dall’esterno.
Questo comandamento – esigenza è nuovo perché è formulato in maniera nuova. Non più: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, ma: “Amatevi come io vi ho amato”. È cambiato il temine di paragone. Il cristiano deve amare come ha amato Gesù: fino ad essere disposto a dare la vita per i fratelli. Nessuno può chiedere tanto, se prima non ne ha dato l’esempio. In secondo luogo è “nuovo”‘ perché nasca da un cuore nuovo, quello che il Padre ha donato ai suoi figli con il battesimo, quando ha riversato il suo Spirito in noi (Rom 5,5) e ci ha cambiato natura (1 Gv 3,1). Il supplemento di amore che Gesù qui richiede è quello che Dio stesso, che è amore, ci ha donato. Perciò Gesù può richiederlo come segno di riconoscimento dei suoi discepoli, di coloro, cioè, che sono passati dalla morte alla vita (1 Gv 3,14) e mostrano questo passaggio amando in modo nuovo, come ha amato Gesù.
Ciò che noi siamo veramente, cioè figli di Dio, non si vede. Gesù ci dice che l’amore da noi vissuto è il solo segno che mostri al mondo chi noi siamo realmente. Ci chiede di mostrare all’esterno il mistero ineffabile che abbiamo ricevuto dentro di noi. Chi non sa amare, non è figlio di Dio, perché Dio è amore. Chi non ama, è ancora rimasto nella morte, dice l’apostolo Giovanni (1 Gv 3,14). Tutto ciò, tradotto in pratica, vuol dire vivere da veri figli di Dio con una vita impostata solo sull’amore e sulla generosità; vuol dire non dare più spazio nel cuore all’odio, al rancore, all’egoismo; vuol dire spendere la propria esistenza amando incondizionatamente e senza limiti ogni fratello che Dio ci ha messo accanto nelle piccole e nelle grandi cose.