La Pentecoste celebra il compimento della Pasqua. Lo Spirito santo, che il Padre manda nel mondo, entra nella vita di coloro che si sottomettono alla sua volontà e dà loro il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,13). A poco ci sarebbe servita la morte e la risurrezione di Gesù, se non ci fosse dato di parteciparvi. Le tre letture liturgiche proclamano questo Mistero nei suoi diversi aspetti. Il brano del Vangelo secondo Giovanni fa parte dei discorsi di addio di Gesù, prima della Passione.
Egli dice ai discepoli di non rattristarsi per la sua partenza; essa è necessaria, perché il Padre mandi “un altro Difensore che rimanga con voi per sempre” (Gv 14,15). La presenza fisica di Gesù era temporanea; il suo Spirito sarebbe rimasto dentro di loro per sempre, a garantire la certezza che la Trinità avrebbe stabilmente preso dimora nei credenti. Per i discepoli non era facile capirlo; e Gesù non insiste; sapeva che per il momento non ne avevano le capacità. Ma verrà lo Spirito santo, che il Padre manderà nel suo nome: “Lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutte le parole che vi ho detto”. I due verbi insegnare e ricordare si rafforzano vicendevolmente. Nel linguaggio biblico, ricordare non è mai un’operazione esclusivamente intellettuale. Qui è come dire che lo Spirito vi permetterà capire in profondità tutto quello che avete visto e ascoltato. Vi “condurrà in tutta intera la Verità”. La Verità è Gesù. Lo Spirito dunque guiderà la comunità cristiana alla profonda, progressiva conoscenza del Mistero del Cristo.
La prima lettura è una narrazione di quanto avvenne in quella prima Pentecoste. Quel giorno Gerusalemme festeggiava il dono della Legge, nel cinquantesimo giorno dopo Pesach, rievocazione dell’uscita dalla schiavitù d’Egitto. La città era stracolma di “giudei osservanti” provenienti da tutto l’Impero romano, ciascuno con la sua lingua, la sua cultura, i suoi costumi. Il gruppetto dei discepoli di Gesù, da parte loro, non osava comparire in pubblico, a causa delle recenti vicende del Maestro. Improvvisamente però le case cambiarono. Ci fu vento, fuoco, fragore impetuoso, a somiglianza di quanto era avvenuto al Sinai secoli prima.
Si aprirono porte e finestre; gli uomini, già paurosi, uscirono fuori a lodare Dio, che sembravano pazzi. Intanto si era radunata una folla incuriosita da quel fracasso. Incredibilmente, ognuno li sentiva parlare la propria lingua. Alcuni li presero per ubriachi. Pietro spiegò che nessuno era ubriaco, ma si stavano compiendo le parole dei profeti, che avevano annunciato l’entrata dello Spirito di Dio nella storia, perché Gesù era stato glorificato. Era il segnale che andava perdendo forza quel seme d’incomunicabilità, che si era radicato tra gli uomini, da quando avevano pensato di organizzarsi prescindendo da Dio, anzi sfidandone il potere, come narrano le Scritture in Genesi (11,1-9).
Il brano della Lettera di Paolo ai Romani ci è donato come seconda lettura. È un canto esultante per l’opera dello Spirito nei credenti. Proviamo a riassumerlo in parole accessibili anche alle nostre orecchie occidentali. L’apostolo comincia col chiarire il senso di due termini, che considera opposti: carne/Spirito. Il più facile da capire è il secondo, la cui lettera maiuscola dice che si tratta dello Spirito santo. Con il termine “carne” abbiamo la consuetudine di alludere alla sessualità. Ma qui è qualcosa di molto più ampio.
È l’insieme delle pulsioni, delle decisioni operative, che condizionano l’uomo, al punto da renderlo schiavo. Nella Lettera ai Galati ne specifica i frutti: “… dissolutezze, idolatria, stregonerie, inimicizie, gelosia, fazioni, invidie ubriachezze, orge…” (Gal 5,20-21). Detto questo, afferma che “quelli che si lasciano dominare dalle carne non possono piacere a Dio”. Sembra evidente. Subito dopo però annuncia la buona notizia: “Voi [credenti, battezzati] non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi”. Più avanti rincara la dose: “Lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti… darà la vita anche ai vostri corpi mortali”. Poi, dalla dimensione escatologica, passa all’oggi storico: la presenza dello Spirito consente ai Galati di non vivere più da schiavi, nelle paura, ma li mette in condizione di vivere nella certezza dei figli, tant’è che sono autorizzati a chiamare Dio “Abbà”, cioè “Papà”.
In quella realtà sociologica era ben grande la differenza tra un figlio di famiglia e uno schiavo. Il primo aveva la certezza della stabilità familiare e dell’eredità; l’altro poteva essere venduto da un giorno all’altro, separato dai genitori, dal coniuge, dagli affetti. La paura era il segno costante sotto cui lo schiavo era costretto a vivere. La Pentecoste proclama la libertà dalla paura; ci dichiara figli, ci apre alla certezza del futuro, perché lo Spirito è stato riversato nei nostri cuori e Gesù abita la nostra storia.