“Un testo di ampio respiro e segnato dalla makrothymía, ossia dalla capacità di guardare e sentire in grande”. Non usa giri di parole mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano e membro della Commissione per l’elaborazione della “Relazione finale”, per definire il documento conclusivo del Sinodo, approvato in tutti i suoi 94 paragrafi da una maggioranza qualificata. “Seguendo la suggestione dell’intervento di un vescovo letto in aula – aggiunge Semeraro -, paragonerei il Sinodo appena terminato alle nozze di Cana dove il vino, che è motivo di gioia, è sembrato, talvolta, mancare e ciò ha destato dell’ansia. Però, la docilità dei servi alla parola di Gesù, di riempire nonostante tutto le anfore con acqua, ha reso possibile il mutamento”.
Eccellenza, quali sono i passaggi principali della Relazione finale?
“Più che ‘passaggi’, indicherei alcuni atteggiamenti, che se pure tornano specialmente nella terza parte della Relatio, tuttavia la segnano profondamente per tutto il suo svolgersi. Sono quelli descritti con i termini di discernimento, accompagnamento e integrazione. Queste tre parole attraversano l’intero documento e si richiamano l’una l’altra”.
Il testo approvato è solo frutto di un buon compromesso oppure è indicatore di quel “camminare insieme” tanto auspicato dal Papa?
“In origine il termine ‘compromesso’ indicava un impegno condiviso. Sotto questo profilo la Relatio mi pare un testo nel quale almeno una maggioranza qualificata si è ritrovata”.
Sui numeri 84-85-86, che trattano del “discernimento e integrazione” dei divorziati risposati, il numero dei non placet, però, è cresciuto…
“A me pare che la ragione sia nel fatto che essi implicano un passaggio molto importante: dalla morale dei comandamenti alla morale delle virtù. In breve, nella prima il soggetto sembra essere valutato come un produttore di atti secondo la legge e la coscienza pare considerata prevalentemente come facoltà di notifica e di applicazione della legge. La morale delle virtù, per sua parte, intende fare propria la pedagogia evangelica che mira all’‘albero’ prima che ai frutti, nella convinzione che se l’albero (ossia la persona e la sua libertà) è buono, anche i frutti (le azioni) lo saranno (cf. Mt 7). Nella Relatio si legge pertanto: ‘Il Vangelo della famiglia nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati’ (n. 50)”.
Pare di capire che lo “sguardo” più che al dettaglio sia stato indirizzato verso l’ampiezza del tema della famiglia…
“Considererei il testo da tre prospettive. Per la prima userei la parola fragilità. La sua etimologia ci riporta a qualcosa che può rompersi o essere rovinato, ma pure a ciò che è prezioso e perciò merita di essere custodito e curato. Ora, nella prima parte la Relatio si accosta alla famiglia proprio in questa prospettiva: è ‘grembo di gioie e di prove’, attraversata dalla crisi ma pure oggetto di speranza e di speranze. Indico l’altra prospettiva con la parola sguardo. Anche questo è un termine ricorrente nella Relatio. Ancora nell’omelia della messa di chiusura Francesco ha detto: ‘Abbiamo condiviso con lo sguardo rivolto al Signore e ai fratelli, nella ricerca dei sentieri che il Vangelo indica al nostro tempo per annunciare il mistero di amore della famiglia. Proseguiamo il cammino che il Signore desidera. Chiediamo a Lui uno sguardo guarito e salvato, che sa diffondere luce, perché ricorda lo splendore che lo ha illuminato’. Uno sguardo sulla fragilità, infine, esige connaturalmente la scelta di parole fragili. Un proverbio africano recita che la ferita provocata da una parola non guarisce! Era, dunque, necessario, per quella realtà così preziosa e fragile che è la famiglia scegliere parole buone, parole di cura, che aiutano a cambiare la vita. Lo spot televisivo di un famoso registratore degli anni Ottanta faceva vedere l’immagine di una notissima cantante jazz che con la potenza della sua voce frantumava un bicchiere di cristallo. I padri sinodali, però, non erano stati convocati per produzioni di questo tipo. Invece di essere quei ‘cooperatori del disastro’, di cui parla il profeta (cf. Zac 1,15), hanno preferito, come dice Paolo, essere ‘cooperatori della gioia’ (cf 2Cor 1,24)”.
Ci accade come ai discepoli del Signore: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Matteo 19, 10).