Un percorso, non un traguardo

Medio Oriente. Primo bilancio della conferenza di Roma per il cessate-il-fuoco

I risultati della conferenza di Roma sul Medio Oriente disegnano un percorso, ma non ancora un traguardo. La concretezza dei suoi risultati sarà meglio misurabile nei prossimi giorni, quando le diplomazie cercheranno di dare attuazione alle intenzioni professate nel documento finale e più o meno condivise.Ma fin d’ora si può dire che il risultato più tangibile del vertice è l’impegno per l’assistenza ai profughi, l’apertura di corridoi umanitari, le offerte per la ricostruzione di un Libano duramente troncato nelle sue infrastrutture, oltre che sconvolto nella sua popolazione. Non è poco, se si pensa che i profughi sono ormai un popolo di ottocentomila persone, per un terzo bambini, e che i danni subiti dal Paese sono pari a un quarto del suo reddito nazionale.Ma per quanto riguarda la tregua non sarà né per ‘ieri’, come ha detto con enfasi il ministro D’Alema per sottolinearne l’urgenza, né per ‘oggi’, come ha chiesto accoratamente il Papa domenica scorsa. Accontentiamoci e preghiamo che ci sia per domani e non per domani l’altro.D’altra parte un ‘cessate il fuoco’ immediato era difficile immaginare che uscisse da una conferenza in cui i combattenti – Israele da un lato, hezbollah dall’altro – non sono entrati. Così come sono rimasti fuori Siria e Iran, Stati a cui tutti riconoscono a denti più o meno stretti il ruolo cruciale per la guerra o per la pace. Ognuno dei due contendenti ha parlato, se ha parlato, segretamente e per interposta persona, e può sempre sfuggire a impegni e a parole ufficialmente non dati. È importante tuttavia che la conferenza abbia riconosciuto la necessità di un ‘cessate il fuoco’ immediato. Questa urgenza vuol dire evitare di dare una copertura politica a Israele, se tende a proseguire le ostilità in territorio libanese fino a che non abbia allontanato i miliziani sciiti dai suoi confini, e significa non giustificare nemmeno gli hezbollah se intendono proseguire il loro tiro al bersaglio su Israele che dura da vent’anni.È anche significativo il fatto che il Governo libanese abbia accettato il principio del controllo di tutto il suo territorio da parte delle sue truppe regolari. Il che equivale a chiedere implicitamente il disarmo degli hezbollah, anche se con un eufemismo significativo che nasconde tutta la debolezza del governo di Beirut nei confronti dei guerriglieri di Hassan Nasrallah. Con quali argomenti e con quali accordi sia possibile dare attuazione a un recupero di una sovranità, già previsto dagli accordi di Taba del 1989 che posero fine alla guerra civile in Libano, e ribadito poi dalla recente risoluzione 1559 dell’Onu, resta ancora da vedere. È molto dubbio che gli hezbollah rinuncino alle armi se, come si dice, venisse restituita al Libano la zona di Chebaa, un territorio di appena quaranta chilometri quadrati che è un po’ troppo smilzo per dar ragione ad una guerra irredentista. Il problema è molto più difficile e complesso e bisognerà necessariamente, per ottenere anche un risultato minimo, cercare la collaborazione della Siria, per non parlare dell’Iran che rifornisce gli hezbollah di idee oltre che di armi. Non è al momento chiaro neanche se la forza di pace dell’Onu debba essere uno strumento in mano al Governo libanese per piegare gli hezbollah, oppure se debba essere una forza di interposizione che occupa il loro territorio, allungando la distanza fra le postazioni dei razzi katiuscia e le città di Israele. Una forza di pace dell’Onu adeguata alle difficoltà della crisi e allo scontro in atto è comunque fondamentale. Perfino Israele, che ha sempre rifiutato finora una simile ipotesi perché vedeva in una guardia messagli accanto una sorta di condanna morale, ora l’accetta. Perché finalmente si accorge, anche senza confessarlo apertamente, che spostare i confini non toglie di mezzo i nemici e che il tempo lungo della sua autodifesa tutta autarchica è finito.

AUTORE: Romanello Cantini