Il Vangelo ci presenta oggi una delle più belle parabole che Gesù abbia mai raccontato; siamo davanti ad un gioiello letterario, a un capolavoro di narrativa popolare da incorniciare. Il racconto è occasionato da una polemica innescata dai farisei e dagli scribi che criticano ferocemente Gesù perché “riceve i peccatori e mangia con loro”. La parabola vuole allora illustrare il comportamento di Dio, riflesso in quello di Gesù. Faceva scandalo un atteggiamento troppo accogliente verso quei pubblicani e peccatori che i benpensanti consideravano esclusi inesorabilmente dal perdono e dalla salvezza. Per Gesù erano invece creature fragili da recuperare, bisognose di tanta comprensione e di incondizionato perdono.
Il Figlio di Dio, che conosceva bene il Padre, insegnava che egli era appunto comprensivo, misericordioso, disposto al perdono. Questo era il vero volto del Padre buono, senza quella maschera di giudice severo e intransigente che scribi e farisei gli avevano applicato. Questa verità, Gesù la annunciava e la applicava nel concreto dei suoi rapporti umani. L’accento del racconto cade perciò sulla figura straordinaria del padre buono, più che sulla figura del figlio perduto. Essa presenta tre scene successive: la partenza del figlio minore, il suo ritorno alla casa paterna, l’intervento del figlio maggiore. La parabola deve essere collocata nell’ambiente palestinese del tempo. Due figli non potevano vivere insieme sulle proprietà paterne, troppo limitate ed ereditate in gran parte dal figlio maggiore.
Il più giovane era destinato a vivere alle dipendenze del fratello più grande o a cercare fortuna all’estero. Nella Palestina di allora un milione di ebrei viveva nella terra dei padri e circa cinque milioni vivevano nella diaspora, cioè all’estero. Da qui inizia l’avventura del figlio minore, che chiede al padre di poter emigrare per farsi una vita sua. Una richiesta più che legittima, alla quale il padre non ha nulla da obiettare. Accetta di anticipare al figlio l’eredità per aiutarlo in questo suo proposito. Il giovane converte i suoi averi in denaro e parte per un paese lontano, dove i suoi connazionali lo aiuteranno a sistemarsi. L’inesperienza, la disponibilità di denaro, l’ambiente pagano corrotto fanno fallire il progetto iniziale. Il giovane dilapida ben presto il suo modesto gruzzolo e si riduce alla fame. La sua situazione è resa ancor più drammatica dal sopraggiungere di una carestia. Deve cercare lavoro da un padrone pagano, che lo manda nei campi a pascolare i porci. È il colmo della miseria per un ebreo, che ritiene i porci animali impuri.
Il giovane ha toccato il fondo e ora comincia a risalire: ha nostalgia della casa paterna dove non gli mancava nulla. Decide allora di tornare e si prepara il discorsetto di scuse da presentare a suo padre per commuoverlo. Si avvia così verso casa. Non sa che il padre non ha mai cessato di pensare a lui e lo aspetta perché è stato informato dai connazionali che sta tornando. Questa è la scena centrale, commovente, dove addirittura il padre perde il controllo di sé e delle sue emozioni. Lo vede da lontano, lo riconosce e, contro ogni ritegno per la sua dignità, si mette a correre, lo raggiunge, gli si avvinghia al collo. Il figlio tenta di formulare le sue richieste di perdono, ma il padre non lo sta a sentire, tutto preso dalla preoccupazione di preparargli un’accoglienza degna di un figlio amato e tornato a casa. Fa portare un vestito nuovo, gli mette nel dito l’anello che conteneva il sigillo di famiglia, gli fa calzare un bel paio di sandali nuovi. Eccolo restituito alla sua piena dignità di figlio. Non contento di questo, il padre ordina un banchetto sontuoso degno di un matrimonio.
Inizia la festa, allegra e rumorosa. A questo punto entra in scena il figlio maggiore, che rientra dalla campagna dove è stato a lavorare. Si informa di ciò che sta accadendo e monta su tutte le furie. Rifiuta di entrare in casa: suo padre è costretto a uscire di nuovo e a giustificare il suo agire per convincerlo a far festa con lui. In cambio riceve un sacco di improperi e di cattiverie. È il portavoce di quei farisei che stanno criticando Gesù per il suo atteggiamento troppo buono, che loro non ritengono degno di Dio. Come il padre dalla parabola, Gesù ha cercato di convincerli a cambiare opinione su Dio. La parabola si interrompe qui senza dirci se è riuscito a convincere i suoi avversari (il fratello maggiore). L’interrogativo rimbalza su noi ascoltatori: accettiamo una tale figura di Dio Padre come ce l’ha descritta Gesù? Forse dovremo cambiare l’idea che abbiamo di lui. Nessuno dei due figli aveva conosciuto veramente il padre.
Il figlio minore ha paura del padre, teme la sua reazione – severa e giusta – di rifiuto, perciò si prepara un discorso capace di imbonirlo. Trova invece un padre buono e misericordioso, aldilà di ogni sua immaginazione. Il figlio maggiore ha conosciuto un padre-padrone, che pensa solo al lavoro e non gli ha dato mai l’opportunità di un briciolo di festa con gli amici. Così pensava fino a quella sera di ritorno dal lavoro. Solo allora si accorge di essersi sbagliato, quando constata l’atteggiamento inaspettato che il padre ha assunto nei confronti del fratello minore. Non accetta un padre fatto così. Gli fa comodo tenersi cara la sua vecchia immagine di padre-padrone, perché si ritiene giusto e quindi meritevole di premio sicuro. Non c’è spazio per la gratuità dell’amore paterno nella sua mente. Questo però non è il Dio di Gesù. A noi la scelta.