In questa domenica il Vangelo narra l’episodio della risurrezione del figlio della vedova di Nain, letto in parallelo alla risurrezione del figlio della vedova di Sarepta. La chiave per comprendere correttamente questo episodio evangelico si trova verso la fine, nel momento in cui la folla interviene coralmente a glorificare Dio che ha visitato il Suo popolo, perché ha fatto sorgere un grande profeta in mezzo a loro. L’interesse dell’evangelista, in questo racconto, sta nell’esaltare la vicinanza soccorritrice di Dio e della Sua grazia nell’azione di Gesù, che ha compassione della sventura della povera madre vedova, ora anche senza figlio e quindi senza sostegno alcuno; al cui dolore prende ampia parte anche la popolazione cittadina. Nell’esperienza biblica ha un grande rilievo la teologia della “visita”. Quando si legge che Dio ha visitato il Suo popolo, si deve intendere che Dio si è preso cura di lui, che se ne preoccupa, che interviene in suo soccorso. Quanti al mattino pregano le lodi ricordano il cantico di Zaccaria, il Benedictus, dove, insieme al padre di Giovanni Battista, si benedice Dio “che ha visitato e redento il Suo popolo”. La Bibbia esprime quest’opera di Dio anche con altre espressioni: avere compassione, consolare, e molte altre. Oggi l’evangelista racconta che la gente, vedendo un ragazzo morto ritornare in vita e riconsegnato a sua madre, riconobbe la visita di Dio, che si era fatto vicino mandando un grande profeta tra il popolo. L’uomo può in qualche modo somigliare a Dio quando visita il fratello o la sorella che sono nel bisogno. Nel Vangelo secondo Matteo, al cap. 25, Gesù racconta una parabola sul giudizio che Dio farà alla fine della storia: saremo tutti giudicati in base a un codice che ha come criterio di base la visita. “Ero malato, carcerato… e mi avete visitato”. Ossia, saremo chiamati a rispondere alla domanda: vi siete presi cura dei vostri fratelli, delle vostre sorelle in difficoltà?
L’episodio della vedova di Nain e quello della vedova di Sarepta – come si è detto – sono presentati in parallelo. Conviene ricordare l’antefatto. Il profeta Elia incontra questa giovane vedova alla porta di una città fenicia, mentre raccoglie legna; prima le chiede acqua da bere e subito dopo anche un pezzo di pane. Lei risponde che, a causa della siccità in corso, non ha nulla in casa, se non l’ultima manciata di farina nella giara e l’ultimo scolo di olio nell’orcio; avrebbe cotto una schiacciata per sé e per suo figlio e poi avrebbero atteso la morte per fame. Elia le disse di fare come le aveva chiesto, perché farina e olio non sarebbero diminuiti, fino a che il Signore non avesse mandato la pioggia. La vedova si fidò di quella parola e ne constatò l’affidabilità: incredibil- mente, farina e olio non finivano mai. Accadde in seguito quello che si narra nella prima lettura. La donna si sentì tradita. Se ne lamentò con il profeta; ma Dio la visitò e lei riebbe suo figlio vivo. L’evangelista Luca narra l’episodio della vedova di Nain con espressioni che richiamano da vicino il fatto di Elia. Nelle due narrazioni, vediamo una vedova in lacrime per la perdita dell’unico figlio; in ambedue c’è un profeta in cammino che giunge presso la porta di una città; c’è un gesto con cui si richiama in vita un figlio morto. Tuttavia si sottolinea che Gesù è superiore a Elia, che pure era considerato da tutti il più grande dei profeti: per Gesù è sufficiente toccare la bara e ordinare al ragazzo di alzarsi; mentre Elia deve supplicare il Signore e prostrarsi ripetutamente. A Nain, oltre ai discepoli di Gesù, è presente una grande folla, che coralmente benedice Dio e ne riconosce la benevolenza, perché è finalmente comparso il profeta grande che era stato promesso anticamente da Mosè (Dt 18,15).
La seconda lettura è tratta dalla lettera di Paolo ai neo-cristiani della Galazia (Turchia nord-occidentale), scritta nel contesto della polemica tra alcuni che si erano convertiti dal giudaismo e altri che venivano da ambienti pagani. Gli ex giudei cercavano di screditare Paolo, che si opponeva alle loro posizioni dottrinali, sostenendo che non era un vero apostolo perché non aveva conosciuto Gesù durante la vita terrena. Paolo si difende scrivendo di non avere appreso la verità su Gesù da uomini, ma direttamente, per rivelazione, dal Risorto. Colpisce un’espressone: “Ma quando Dio… si compiacque di rivelare in me suo Figlio” (Gal 1,16). Non “a me”, come si trova in vecchie, imprecise traduzioni, ma “in me”. Paolo intende dire che la conoscenza di Gesù Cristo non gli venne da una “informazione”, ma fu un avvenimento, accaduto nell’esperienza intima di un incontro. Ogni fede autentica e adulta in Gesù Cristo ha sempre inizio da un incontro.