Ai funerali di Prospero Gallinari, il brigatista del gruppo che uccise la scorta di Aldo Moro e lo stesso Moro dopo giorni di prigionia, non erano in molti, ma rumorosi e fieri di essere lì come a segnare il trionfo di un eroe… In un periodo di anti-statalismo, di critica alla politica, di aspre polemiche e di veleni diffusi a piene mani tra la gente, sembra giusto sottolineare l’incongruenza di quanto visto e sentito. È giusto dire che quelle persone si sono identificate con ciò di cui avrebbero dovuto vergognarsi. Possibile che non sia passata in quelle teste neppure la lontana idea di un dubbio, un ripensamento, una richiesta di comprensione, magari per una contestualizzazione storica. Potevano dire: “Eravamo giovani, avevamo ideali forti che credevamo decisivi, abbiamo avuto paura di essere scoperti”. Qualcuno lo ha fatto e sono i pentiti, ma dagli irriducibili sono considerati dei deboli, se non dei traditori. Al funerale, celebrato al cimitero di un paese sconosciuto alle porte di Reggio Emilia, Coviolo, sono seguite innumerevoli polemiche e prese di distanza da parte delle autorità locali, che hanno sottoscritto una lettera aperta in cui dichiarano che “Reggio Emilia è offesa di fronte alla manifestazione inscenata durante” le esequie. “Non si è trattato di un funerale normale e del giusto esercizio del diritto al saluto estremo a un parente, un amico, una persona conosciuta. No. È avvenuto qualcosa di grave, che ha turbato le coscienze di un popolo profondamente democratico, quello di Reggio Emilia, in prima linea da sempre per difendere libertà e democrazia. L’unica canzone che Oreste Scalzone [fondatore di Potere operaio, ndr], Curcio e soci avrebbero dovuto cantare, avrebbe dovuto essere Perdono”. Ma, in un certo tipo di cultura, il perdono è un atto di debolezza e un segno di paura, mentre è e dovrebbe essere la consapevolezza del limite, della possibilità dell’errore, il tentativo di riparare il danno compiuto, la ricomposizione di una giustizia ridotta in frantumi. È certo che la semplice richiesta del perdono non cancella ciò che è umanamente irrimediabile, come quando si è spenta una vita. E sappiamo che gli elogi funebri resi alle vittime, e anche monumenti o manifestazioni, e perfino gli atti di giustizia e di condanna non sono minimamente sufficienti a compensare il dolore e il danno: “Chi mi ridà mio figlio, mio marito, mio padre o un mio amico, un servitore del popolo?”. La storia si può raddrizzare e il giudizio può essere cambiato solo se si entra in una logica di fede cristiana che annuncia la risurrezione e la vita in Cristo. È l’unica via per vincere un disperato senso di impotenza ed entrare nella porta stretta della speranza ultima. Le autorità di cui si diceva sopra, sindaco e il presidente della Provincia di Reggio Emilia, hanno aggiunto una dichiarazione di vicinanza alle famiglie delle vittime delle Brigate rosse, criticando la manifestazione come un “un pericoloso quanto sciagurato tentativo di passaggio di testimone politico” tra vecchie e nuove generazioni. Ripensando a Moro, alla sua persona e alla storia della sua fine, non possiamo dimenticare la figura di un Papa vecchio e malato, Paolo VI, che si è rivolto alle Brigate rosse e, inascoltato, non gli è restato che affidare a Dio l’uomo buono, suo amico, insieme ai suoi fratelli caduti per mano assassina nella stessa tragica strage.
Un estremo ma sciagurato saluto
AUTORE:
Elio Bromuri