Non possiamo far finta di niente, girare gli occhi altrove o, peggio, ficcare la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Quando è un prete che si toglie la vita, si rimane senza fiato. Tutta una comunità ne soffre; non la comunità astratta, ma quei singoli uomini, donne, giovani, bambini che in quella figura trovavano conforto nella fede, un punto di riferimento per la vita, un indicatore di cose belle, sante e pure. La vita liturgica vissuta e animata dal popolo, convocato dalla Parola e guidato nel rito dal suo presbitero, è un inno alla vita, un sostegno a un cammino di speranza e di gioia. Improvvisamente, tutto sembra spazzato via da una tempesta di fango.
Domenica scorsa Papa Francesco è stato pellegrino in Albania ed è stato accolto in una piazza contornata dalle foto dei martiri albanesi, vittime del più bieco regime comunista, oggi per grazia di Dio sepolto sotto una coltre di disgusto e disprezzo. Questo pellegrinaggio e questo richiamo del Papa ai martiri albanesi, cristiani cattolici e ortodossi, e anche di credenti musulmani, tutti accomunati nella repressione della fede in Dio, proibita dal regime, mi ha fatto pensare al martirio di chi soffre pur senza trovarsi in una situazione di persecuzione, e anche senza che vi sia una motivazione religiosa. Una persona come il parroco che si è ucciso appartiene a questa ampia parte di sofferenza umanamente insostenibile. Una schiera di persone che soffre per motivi propri, intrinseci alla sua condizione umana, alla sua situazione familiare, allo stato di salute, al bisogno estremo di sopravvivenza. Pensiamo un attimo ai duemila naufraghi – tanti sono dall’inizio di quest’anno a oggi, pare – inghiottiti dalle acque del mare nostrum, il Mediterraneo, soffocati dalle acque mentre cercavano di respirare aria di libertà e di benessere nei Paesi dello sviluppo tecnologico e della democrazia sbandierata ai quattro venti.
Non si vuol dire con ciò “mal comune, mezzo gaudio”. Nulla di più falso tra i proverbi. Il male e la sofferenza incidono sempre nella singolarità della persona fino a determinare scelte rischiose, come quella dei naufraghi, e anche tragiche, come quella dei suicidi. Considerare realisticamente il dato di sofferenza di certe situazioni è la prima presa di coscienza che pone in atto azioni umane e richiama al senso di responsabilità di fronte al rischio di provocare o aggravare lo stato di sofferenza altrui fino a renderlo, in particolari circostanze, irrefrenabile. Non vi sono regole di qualunque genere che possano contravvenire a questa norma basilare di convivenza umana, e non vi sono esigenze soggettive o sociali che vi possano derogare. La convivenza umana non può essere regolata dalla ricerca del profitto o dell’interesse proprio o di casta, altrimenti rischia – come purtroppo avviene in ampia misura nel nostro tempo e anche nel nostro Paese – una giungla dove è guerra di tutti contro tutti. Basta leggere i giornali.
Al prete albanese che è stato per 27 anni in prigione, torturato e poi condannato ai lavori forzati sotto il comunismo, il Papa ha chiesto come abbia fatto a resistere a tanta sofferenza. Il sacerdote ha risposto: “Dio ogni giorno mi ha consolato”. È il caso di citare un testo-chiave: “Padre misericordioso, Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione” (2 Corinzi 1,3-4). È questa la Parola che trasfigura le sofferenze di chi crede, che non giudica né condanna, ma chiama tutti a un severo esame di coscienza che dovrebbe suggerire prudenza di giudizio, moderazione di espressione, e scendere dall’ingannevole piedistallo mediatico per porsi con umiltà tra le persone che soffrono.