A noi abituati ad un cristianesimo addolcito e annacquato, dove l’idea dell’amore e della misericordia di Dio sembra dispensarci da qualsiasi sforzo, in una specie di buonismo senza serio impegno di vita e senza sacrifici, le parole di Gesù oggi suonano a dir poco scandalose. Come si permette di dire certe cose, lui predicatore dell’amore? Ne restiamo sconcertati. Siamo costretti però a prendere in considerazione queste sue dure parole, noi che vorremmo selezionare gli insegnamenti del Vangelo, scegliendo quelli che più ci piacciono. Molti cristiani oggi fanno così: saltano le pagine più dure e impegnative, e leggono solo quelle più “belle”, più rispondenti alle loro idee e ai loro comodi.
È una fede mutilata, resa sempre più neutra e rassicurante. Ma non sempre il Vangelo si adatta ai nostri gusti, né ci è consentito piegarlo dove e come ci pare. La fede non è un cuscino sul quale riposare comodamente, ma un tormento interiore che non lascia tranquilli e può richiedere sacrifici eroici. Comunque, ci stimola sempre a convertirci. Due sono gli insegnamenti che il brano di oggi ci trasmette: il primo riguarda il distacco da ciò che uno ha di più caro e la predisposizione al sacrificio; il secondo richiama ciascuno a calcolare i rischi e il prezzo che comporta l’essere cristiani. Per tre volte risuona il ritornello severo: “non può essere mio discepolo”, rivolto a chi antepone a Dio altri affetti, sia pure santi; a chi non accetta di portare la propria croce quotidiana; a chi non sa distaccarsi dalle ricchezze materiali.
La cosa che più colpisce è la frase iniziale che detta la prima condizione per la sequela di Cristo: “Se uno viene a me, e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. È un modo di parlare tipicamente ebraico, in uso nell’Oriente antico semitico, che usa espressioni paradossali sia per colpire l’ascoltatore, sia per esprimere un concetto forte. Una specie di pugno allo stomaco per richiamare l’attenzione in maniera efficace. Gesù e i suoi contemporanei non conoscevano le mezze misure e i chiaroscuri del nostro linguaggio: per loro la realtà era bianca o nera, non esisteva il grigio. Il vero senso delle parole lo doveva calibrare l’ascoltatore. Matteo traduce la stessa frase in maniera più occidentale, così: “Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me” (Mt 10,37).
È evidente che Gesù non poteva inculcare l’odio contro nessuno, lui che aveva enunciato il grande comandamento dell’amore del prossimo (Lc 10, 26-28) e addirittura quello del nemico (6,27); aveva ribadito il quarto comandamento del Decalogo, che comanda di amare e onorare il padre e la madre (18,20). Le parole di Gesù non esigono il rifiuto degli affetti più naturali e più forti. Egli sa bene che non si possono soffocare i sentimenti più sacri, quelli che egli stesso ha creato e messo nel cuore di ogni uomo. Non può certo comandare di odiare perfino la vita, che egli ha donato all’uomo come cosa preziosa e intangibile. Ma chiede di relativizzare ogni affetto umano a confronto dell’amore di Dio. Lui deve essere amato sopra ogni cosa e prima di ogni cosa “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza e con tutta la mente” (10,27). Vuol dire rifuggire da ogni compromesso, tiepidezza e accomodamento nella via della fede. Dio deve essere la scelta più importante e impegnativa della vita.
Questo vale per tutti i credenti e deve essere calato nelle situazioni varie della vita, coniugato con la vocazione che ciascuno vive. Gesù non vuole creare due categorie di seguaci, quelli comuni e quelli speciali, i normali e gli eroi; intende chiedere a tutti il massimo di impegno, che sarà proporzionato allo stato di vita di ciascuno. Come a tutti chiede di portare la propria croce quotidiana, fatta di impegno, di sacrificio, di fatica del vivere, di sofferenza fisica e morale, quella che lega al destino di Gesù che ha offerto la sua vita per la salvezza di tutti. Luca pensava ai cristiani del suo tempo, esposti anche al rischio del martirio nella persecuzione. Gesù non chiede solo rassegnazione, ma partecipazione attiva alle sue sofferenze, preziosa per la propria salvezza eterna e per quella dei fratelli in umanità.
Le due parabole, bevi e scattanti, invitano tutti a calcolare e valutare le proprie forze e le proprie capacità di impegno sulla via della sequela poco prima tracciata. Essere cristiani, così come li ha descritti Gesù, è un fatto impegnativo; non può essere una scelta superficiale e incosciente. Questa esporrebbe chiunque a fare le cose a metà, e quindi al fallimento della vita. Bisogna riflettere con calma e senso di responsabilità (sedersi a calcolare). Vengono introdotti come esempio due protagonisti: un contadino e un re. Il primo vuole costruire una torre di guardia e di rifugio nella sua vigna (come ce n’erano tante in Palestina), il secondo programma un piano di guerra impegnativo contro un altro re vicino. Gesù vuole dire che se ogni cosa, piccola o grande, richiede ponderazione e calcolo preventivo, quanto più ciò è richiesto dalle cose di Dio, che coinvolgono la salvezza eterna. Se le cose umane esigono programmazione e verifica, quanto più ciò è richiesto dalle scelte spirituali, dalle quali dipende la riuscita o il fallimento della vita intera. Il proprio avvenire eterno non è cosa da poco, da affrontare con superficialità. C’è il rischio di cominciare e di non finire, quello di partire e non arrivare mai, perdendo per strada l’entusiasmo iniziale, cedendo allo scoraggiamento.
A Dio non basta che noi cominciamo, vuole che noi arriviamo fino in fondo nel nostro impegno cristiano. Gesù dice: “Con la vostra perseveranza, salverete le vostre anime” (21,19). È un forte richiamo alla mentalità del nostro tempo, che rifugge gli impegni definitivi per rifugiarsi nel provvisorio e nell’occasionale, che non sopporta scelte totalizzanti fatte una volta per sempre. Il brano termina con la stessa radicalità con cui è iniziato: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Gesù, col suo parlare paradossale, ci chiede di investire tutto nelle ricerca di Dio e del suo regno, di puntare tutto sulla carità, mettendo mano al portafoglio e rinunciando alle cose inutili e superflue che riempiono la nostra vita soffocata dalle vanità. Ci invita ad imboccare decisamente la strada dell’austerità, che alcuni santi hanno percorso fino in fondo, prendendo alla lettera queste parole.