Umbria Jazz con il tempo, in Orvieto, sta veramente crescendo. Questa 9a edizione Winter è stata una dimostrazione per tutti che ormai l’istituzione sulla rupe si è ben radicata, divenendo un appuntamento nazionale importante per molta gente che al tenero intimismo delle feste natalizie vuole aggiungere anche un momento di vivace distrazione per andare incontro al nuovo anno che viene. E la vecchia città arroccata sulla rupe, con il raccoglimento delle sue strade e dei suoi ambienti, sembra capace, nonostante il brivido stagionale, di offrire quel mondo attrezzato di tante attrazioni, dentro il quale il jazz riluce e fermenta come spumante in una splendida bottiglia. E la gente sciama, imbacuccata e paludata come può, di giorno e di notte, tra gli spazi che la fitta rete dei concerti consente, alla ricerca dei cento motivi che richiamano insistentemente occhi e orecchi, ligi all’intento costante di impadronirsi dei rigorosi segreti, dell’anima di questa strana città che è il retaggio più prezioso della sua storia. Perché sulla sua tavola imbandita non c’è solo musica, c’è la bellezza delle sue chiese; c’è la deliziosa fantasia, all’interno e all’esterno, di dolci presepi, piccoli e grandi, immobili e mobili, propri di questi tempi; la severità e la grazia dei suoi monumenti, dei suoi palazzi con appena l’ombra delle loro torri; gli irripetibili angoli donde appare e dispare improvvisa la linea delle sue colline brune, e poi le avvincenti memorie delle sue vicende, prima e dopo Cristo, stampate sopra e sotto il ruvido connettivo della sua pelle secolare: insomma il tutto del suo decoro e della sua storia, che può alla fine essere ben condito ed annaffiato con i sapori dei suoi piatti e gli inebrianti effluvi delle sue cantine. Quest’anno c’è stato anche l’attraente fascino di certe vecchie signore della strada, corteggiate dalle nuove, che l’Alfa Romeo, la casa automobilistica del biscione visconteo e sponsor del festival – “due voci ed un solo spirito”: è stato detto – ha voluto sistemare a mo’ di museo nella ampia cornice dell’antica chiesa di S. Agostino, chiusa al culto: superato lo stridente impatto con un certo garbo. La presente tornata ha voluto essere, come si sa, un messaggio di solidarietà, un ideale abbraccio, dell’Umbria con la città di New York, capitale mondiale, con Chicago, del jazz, ferita nelle sue torri gemelle dall’attentato proditorio dell’11 settembre scorso. Nell’insegna e sul binario di questo che è il genere più specifico della libertà musicale, si sono succeduti, nei diversi concerti, tenuti tra il palazzo dei congressi, dei Sette, il teatro Mancinelli, Museo Greco, il San Francesco, gli esponenti tuttora più autorevoli ed accreditati, americani ed anche nostrani: Pat Martino, il chitarrista redivivo, uscito da una gravissima menomazione fisica, il sassofonista Joe Lovano, il pluriosannato trio postmoderno Medeski, Martin & Wodd, il pianista Uri Caine con Marc Ribot e Bob Borough, il sassofonista Gary Brown; gli italiani Stefano Bollani con il suo “Abbassa la tua radio”, vera rivelazione del Festival, Peppe Servillo, Giovanni Tommaso, ben noto al pubblico umbro, Antonio Faraò, pianista romano, ed altri. Puntuali e colorite le rituali uscite della Marching Band – The Coolbone Brass Band from New Orleans -, che, inseguita dal solito codazzo dei fans, non mancava, ogni mezzodì, di porgere a tutti per le vie del centro la sua pittoresca carica di euforia, quasi aperitivo sonoro al pasto quotidiano. Ma soprattutto dovremmo riservare un posto d’onore alle tre grandi voci fra Gospel, Blues e Soul: Marva Wright, Sarah Janne Morris e Lashun Pace. Quest’anno la Messa per la Pace in Duomo alle ore 17.00, ha registrato momenti di alto rapimento, spirituale e lirico. Gremita come non mai l’ampia nave ha prestato uno spettacolo inconsueto, soprattutto per la partecipazione attenta e composta. La semplicità del rito sembrava essere quasi sopraffatta dall’evidente enorme contrappunto creato dalla massa. Il Vescovo, nella sua omelia, con sobrie ed elevate parole ha ricordato i mali del mondo, dominato dall’odio, dalla miseria e dalla prepotenza, e la necessità di pregare per la pace, autentico dono di Dio. Ha ripetuto e sostenuto il tema del rispetto per le culture: “La Chiesa non teme la ricchezza e la varietà delle culture, esse rappresentano un vero patrimonio per l’umanità intera, ma alla base ci deve essere la disposizione di ognuno al reciproco rispetto, perché si faccia, sempre più, della totalità dei popoli la grande famiglia dei figli di Dio”. Il canto del Gospel, parola che in inglese significa Vangelo, ha coronato poi come degno sublime finale, la composta e raccolta liturgia eucaristica, liberando i cuori in un empito di prorompente gioia, di cui si faceva magistralmente interprete il valoroso complesso americano, che con discreti canti aveva già accompagnato la Messa. Ma era ora la voce di Marva Wright, – cantante di grande prestigio dotata di una capacità artistica eccezionale, maturata tra chiesa e mondo – suadente e potente, ad impadronirsi di ogni emozione e sentimento, di ogni intima pena e frenetico slancio, di quella massa che la premeva d’intorno, e a farli propri in quel groviglio di rose e spine che era stata un po’ la sua esistenza non facile; ora li raccontava ed ora li gridava con tutta la forza che aveva in petto, perché il mondo sentisse, ma ancor più l’ascoltasse quella Presenza arcana che dall’alto giudica ogni vicenda umana. Così tutti gli spari e botti e l’intemperanze di una nottata brava, durata fino al mattino del nuovo anno, finivano in un rasserenante ritorno di sapienza, di bellezza e di bontà, come dopo un temporale il sereno del cielo riconcilia la pace del cuore. Anche ciò può essere considerato, a nostro modesto parere, un prodotto del Festival: un avvenimento, nato ormai dieci anni fa, che si conferma come valido, nonostante le incertezze e le perplessità e i rischi pure della sua nascita.
Umbria jazz: come una cometa in un cielo di ghiaccio
Momenti di "alto rapimento" durante la Messa per la pace officiata in Duomo
AUTORE:
M.P.