Nelle scorse cinque domeniche il lezionario ci ha offerto il tema di Gesù pane di vita, ripreso dal sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni. Questa lunga catechesi serviva ad approfondire il miracolo che invece Marco – il testo che riprendiamo a leggere – trattava in un minor numero di versetti (Mc 6,30-44).
Il racconto marciano riparte ora dall’episodio della diatriba tra Gesù e i farisei circa le tradizioni sulla purità. Abbiamo già avuto occasione di imbatterci, col Vangelo della XIII domenica di quest’anno, in una situazione simile: quella di Gesù che viene reso “impuro” da una donna emorroissa che gli tocca le frange del mantello. Ora siamo al momento cruciale dell’insegnamento di Gesù sul puro e impuro, una delle realtà religiose che più distinguono la teologia cristiana dall’ebraica, da cui pure la prima ha avuto origine. L’affermazione più importante di Gesù a questo riguardo è purtroppo espunta dal lezionario.
La scena perde infatti molta forza dal fatto che è stato tolto il commento extradiegetico di Marco in 7,19: Gesù “dichiarava così mondi tutti gli alimenti” (traduzione Cei; la trad. IEP preferisce “puri” invece di “mondi”). Anche nel libro degli Atti assistiamo ad una situazione analoga a quella descritta nel nostro brano. Pietro, che sta per recarsi a casa di un pagano, Cornelio, in sogno ha la visione di una tavola che discende dal cielo; la risposta alle obiezioni di Pietro viene direttamente da Dio: “Le cose che Dio ha purificato, tu non renderle impure” (At 10,15). Dopo questa rivelazione, Pietro è capace di affermare, in At 10,28: “Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo”.
Si capisce subito che in gioco non vi è semplicemente qualche norma che ha a che fare col cibo, ma si tratta piuttosto dell’intero atteggiamento verso la realtà, o meglio, verso gli “altri”. Commenta Paolo Sacchi: “Secondo Marco (cap. 7), Gesù abolì le norme di purità riguardanti i cibi (7, 19). Ma, se uno legge il testo attentamente, si accorge che Gesù prese spunto da un problema particolare, quello che riguarda gli alimenti, per arrivare a conclusioni che vanno al di là della sfera alimentare”. Il principio fondamentale che regolava la delicata questione nella mentalità ebraica biblica era che “il popolo santo, Israele, quando mangia, quando procrea e quando adora Dio nel Tempio, deve evitare certe fonti di contaminazione” (Neusner), e quindi deve cercare di non entrare in contatto con ciò che rende impuro.
Una volta che si entra in contatto con queste, è indispensabile ricorrere a rimedi quali abluzioni (come quelle descritte nel Vangelo di oggi), o sacrifici, oppure il decorrere naturale del tempo, o, ancora, purificazioni (come quella post partum a cui è obbligata Maria, ad es., in Lc 2,22). Cosa comporta per gli ebrei il non rispettare le norme di purità? Come detto, si incorre in gravi obblighi di purificazione, ma in definitiva si rischia addirittura di perdere il possesso della Terra promessa da Dio. Secondo quanto scritto nel libro del Levitico, i figli d’Israele possono morire a causa delle loro impurità (15,31), o essere espulsi dalla Terra: “Osservate tutte le mie leggi e tutti i miei precetti e metteteli in pratica, e la terra in cui vi conduco per abitarla non vi vomiterà” (20,22).
Le leggi relative alla purità, infatti, rappresentano il modo in cui il popolo dell’Alleanza può riconoscersi unico, diverso da tutti gli altri popoli. Se le norme non vengono rispettate, Israele non merita di conservare la Terra, e quindi è ridotto alla stregua delle nazioni. Come scritto in Lv 18,24, le cose con cui ci si può contaminare sono quelle con cui si contaminano normalmente le genti che Dio scaccia davanti al suo popolo; le nazioni che hanno compiuto tali azioni hanno infatti contaminato la Terra, e per questo la Terra li ha vomitati (Lv 18,28). Basterà a questo proposito ricordare una scena biblica famosa, quella dei quattro giovani ebrei, tra i quali Daniele, che vengono riconosciuti come “altri” non per il loro atteggiamento morale o per qualche gesto spirituale, ma perché non mangiano le cose che si mangiano a Babilonia.
Solo per questo fatto, prosperano e possono salvarsi. Gesù non è contrario a questa teologia, che deriva del resto dalla Legge, ma si oppone al modo in cui veniva concretamente applicata alla vita quotidiana, in particolare quando le “tradizioni degli uomini” (Mc 7,8) arrivano al rifiuto di chi non le rispetta: “L’uomo contaminato era considerato uno che non poteva avvicinarsi a Dio. [‘] Gesù dice che nessuno può essere impuro per i contatti avuti e nessun cibo può contaminarlo. Chiarito che né le cose, né gli alimenti possono contaminare l’uomo, restava da chiarire che cosa poteva contaminarlo. Sono le cose cattive che ci sono nell’animo umano e che a un certo momento escono e si concretizzano in pensieri cattivi e poi in azioni cattive, cattive come i pensieri che le hanno originate. [‘] L’uomo in stato di impurità esiste, non è una fantasia. È l’uomo che ha trasgredito la volontà di Dio, un uomo che ha bisogno di essere purificato per riprendere il suo posto nel Regno” (Sacchi).
L’impurità, in altre parole, non è nelle cose (come i cibi) o negli animali, ma è solo nella trasgressione contro Dio: impuro è solo il peccato. Ecco quindi che tra le conseguenze dell’insegnamento di Gesù vi sono quelle per cui i pagani non vengono più considerati impuri: “Nel cristianesimo il profano sembra scomparire del tutto. Fra Dio è l’uomo non c’è più alcun limite preciso” (Sacchi); tutto è sacro.