Tutti siamo convinti che, venendo al mondo, abbiamo ricevuto dei “talenti” da trafficare e da spendere. La parola “talento” è divenuta sinonimo di qualità intellettuali e pratiche che fanno di ciascuno una persona geniale e singolare. L’uso di questo vocabolo, derivato dal Vangelo, dice quanto abbia inciso la cultura cristiana sul nostro linguaggio. La parabola che oggi Gesù ci racconta parla del rendiconto finale, quando egli chiederà a ciascuno come abbiamo utilizzato i talenti ricevuti. L’evangelista Matteo ha inserito il suo racconto nell’annuncio della seconda venuta di Gesù alla fine dei tempi. Siamo alla penultima domenica dell’anno liturgico e la Chiesa ci ricorda l’incontro finale con Gesù che verrà nella sua gloria a giudicare il mondo alla fine dei tempi. Egli aveva annunciato quest’evento finale come il tempo della mietitura, quando il buon grano sarà separato dalla zizzania (Mt 13,36-43), o come la conclusione del lavoro del pescatore che, sulla spiaggia, fa la cernita del suo pescato (13,47-50).
È un ricordo salutare, che deve nutrire la nostra speranza e stimolare il nostro impegno di fede. Non consente illusioni: Dio non concede sconti ai fannulloni. Ognuno raccoglierà i frutti del proprio impegno umano e cristiano. Il salario sarà uguale per tutti, come nella parabola degli operai della vigna (Mt 20,8-18). Sarà il premio della vita eterna, che consente a tutti di “prendere parte alla gioia del Signore”. Questo, anche se il lavoro e l’impegno sono stati diversi “secondo le capacità di ciascuno”. Quello descritto da Gesù è un episodio basato sulla fiducia incondizionata che il padrone accorda ai suoi servi. In procinto di partire per un lungo viaggio che lo vedrà assente per molto tempo, affida loro la gestione di tutti i suoi beni. Il racconto diviene subito allegoria trasparente, perché il Signore che parte è chiaramente lo stesso Gesù che ascende in cielo e che un giorno tornerà. Egli affida la sua Chiesa nelle mani dei servi, apostoli e fedeli, impegnati a consolidare e ampliare la sua opera. Sa di rischiare molto, ma ha fiducia in tutti noi credenti. Le somme affidate sono volutamente favolose, tanto che quei servi possono essere paragonati ai governatori di province che amministrano una grande ricchezza. Ma i beni spirituali che Dio ci ha donati sono inestimabili.
Un talento poteva essere d’oro o d’argento e pesava circa 43 kg. Al cambio valeva 6 mila denari, lo stipendio di un operaio per 20 anni di lavoro. Anche un solo talento era dunque una somma enorme, che solo i ricchi possedevano. Dieci o cinque talenti erano una somma da capogiro. Siccome poi i talenti sono stati attribuiti ai singoli secondo le loro capacità, ciascuno si deve impegnare al meglio delle sue possibilità. Matteo ricorda ai cristiani di ieri e di oggi che Dio concede doni diversi all’interno della sua Chiesa, ma tutti si devono sentire responsabili a mettere a frutto ciò che hanno ricevuto. Il cuore della parabola non è però nella distribuzione diversa dei talenti, ma nel ritorno del padrone che chiama a rendiconto i suoi servi. Possiamo notare chiaramente che l’incontro del padrone appena tornato è descritto con una forte nota di serenità e di ottimismo. La fiducia del padrone è stata ben riposta, infatti i due terzi dei servi si sono impegnati in modo lodevole.
Il padrone elogia e premia coloro che sono stati diligenti, perché capaci di far fruttare al meglio il loro capitale. Lo hanno infatti raddoppiato. Era il meglio che potessero fare, in misura di quanto hanno ricevuto. Anche se hanno prodotto risultati diversi, si sentono rivolgere l’identico elogio: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco: ti darò potere su molto. Prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Qui Gesù assicura a coloro che si sono impegnati per lui la partecipazione alla sua signoria divina, alla festa del regno dei cieli. Questo è presentato come il luogo delle felicità piena, perché comunione gioiosa con Dio, meta finale della vita. Il centro della parabola è costituito anche dall’incontro del padrone con il servo che ha seppellito il suo talento in una buca del terreno per metterlo al sicuro dai ladri. Ora che il padrone è tornato, lo tira fuori e lo restituisce integro come lo ha ricevuto. Accompagna però il suo gesto con un discorso dal tono offensivo. Confessa che ha considerato il suo padrone come uno sfruttatore duro e senza scrupoli, che specula sull’impegno dei servi. Ha avuto perciò paura di lui e ha messo al sicuro il suo talento. Ha scelto un buon paravento per coprire la sua pigrizia, pensando che la migliore difesa sia proprio l’offesa. Non ha capito che il dono del talento ricevuto era un atto di amore e di fiducia, non un tentativo di sfruttamento alle sua spalle.
È importante notare che il padrone assume come criterio di giudizio proprio la convinzione che ha guidato il comportamento del servo. Ciò vuol dire che Dio ci giudicherà anche in base all’idea sbagliata che si siamo fatti di lui. Saremo noi stessi a fornirgli la misura del giudizio nei nostri confronti. A questo punto il giudizio del padrone è severo e tagliente: “Toglietegli il talento… e il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Il talento tolto al servo pigro è dato a chi si è impegnato di più e ha corso il rischio maggiore. Dove il dono ha prodotto frutto, sovrabbonda la generosità di Dio; dove si è dimostrato sterile, tutto è perduto. È il fallimento totale della vita. Il giudizio ognuno se lo porta dentro e risulta dalla sua condotta di vita. Il risultato di una vita sbagliata è l’esclusione dal banchetto celeste, come nella parabola della grande cena (Mt 22,13). La singolare conclusione dice che il servo indegno viene messo in prigione e non gli resta che il pianto e la rabbia per il suo fallimento.