I Tre nell’unità dell’amore

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini Santissima Trinità - anno C

Questa domenica che segue la Pentecoste segna la fine del tempo pasquale e introduce il tempo detto “ordinario”. Anche il nostro camminare in questo tempo liturgico sarà appunto “ordinario”, ossia quotidiano, in qualche modo feriale; fatto della vita di tutti i giorni, con le sue fatiche, i suoi problemi, le sue tentazioni e le consolazioni dello Spirito; intanto la Chiesa continua a fare memoria del mistero di Dio, dentro cui lo Spirito santo progressivamente la introduce. La solennità della Ss. Trinità, che oggi celebriamo, contempla e adora la vita intima e misteriosissima di Dio, che è relazione d’amore. A questo alludono, da punti di vista diversi, le tre letture liturgiche.

Dinanzi all’annuncio che Dio è Trinità, ossia uno e trino, tutti ci siamo domandati: che vuol dire? Dio, chi è? Siamo da sempre abituati a immaginare le realtà in termini aritmetici e facciamo fatica ad accettare che uno sia uguale a tre e tre uguale a uno. Anche i discepoli che vissero fisicamente con Gesù, e lo ascoltarono parlare del Padre, dello Spirito e di sé, uguale al Padre, stentarono e entrare in una dimensione di cui non possedevano nemmeno il vocabolario.

La Chiesa stessa impiegò qualche secolo per trovare una parola con cui esprimere sinteticamente la realtà misteriosa di cui Gesù aveva parlato. Nel Vangelo di oggi, Gesù parla del Padre che lo ha mandato e che è una cosa sola con Lui; parla anche dello Spirito che il Padre manderà; lo Spirito ricorderà le parole che Egli aveva già annunciato, ma permetterà di capirle con una diversa profondità ed estensione. Nelle sue parole c’è dunque la presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. I Tre vivono in tale unità d’amore da essere uno. Questa vita di relazione d’amore fa sì che Dio non sia un solitario, come altre religioni lo pensano; ma aperto verso la creatura, particolarmente verso l’uomo, con cui incredibilmente entra in dialogo. La teologia più tardi tenterà una formula di sintesi: tre sussistenze in una sola natura.

Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che scrive ai cristiani della comunità di Roma. Pochi versetti nei quali, con rara potenza di sintesi, tratta della nuova condizione dell’uomo credente, che ha accettato il dialogo offerto da Dio in Gesù Cristo. Anzitutto afferma, con certezza impressionante, che ormai tra Dio e l’uomo non ci sono più tensioni, ma pace. Nei secoli passati l’ira di Dio si era manifestata “contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nella ingiustizia” (Rm 1,18): quando pretesero di essere dèi di se stessi e della propria storia. Ora però ai tempi dell’ira si è sostituita la pace. Ciò non per merito dell’uomo e delle sue buone azioni, ma per l’opera di Gesù Cristo, che gratuitamente ci ha riconciliati con Dio, con il creato e tra noi.

Questa nuova condizione non solo è una realtà oggettiva, ma addirittura occasione di vanto. Termine su cui noi pudicamente glissiamo, come per non apparire presuntuosi. Non così Paolo, che lo ripete anche nel versetto successivo: “Ci vantiamo anche nelle tribolazioni”. Nel primo capitolo della lettera (1,16), aveva affermato: “Io non mi vergogno del Vangelo”. Nella cultura greco-romana del tempo (come del resto oggi) c’era davvero di che vergognarsi pubblicamente a predicare che la pace è necessariamente legata alla morte e risurrezione di Gesù Cristo: non era – e non è – politicamente corretto. Ora aggiunge che non solo non se ne vergogna, ma ne mena vanto.

Anzi proprio su questo si fonda la speranza, di cui dice che “non fa vergognare” (la traduzione italiana: “non delude” sembra un po’ debole). Ciò è reso possibile dallo Spirito santo, che ha riversato l’amore di Dio nei nostri cuori. La prima lettura introduce un personaggio femminile, chiamato Sapienza di Dio, che racconta la propria storia. Parla di un tempo prima del tempo, quando fu generata. Allora non c’erano ancora le sorgenti cariche d’acqua, i monti, le colline; Dio non aveva ancora creato terre, campi, neppure le prime zolle del mondo. Poi parla anche della propria attività: era la collaboratrice di Dio; descrive se stessa come un architetto-fanciulla, che giocava a far scaturire le sorgenti in fondo agli abissi marini, a calcolare le leggi per regolare le maree e dare stabilità alla crosta terrestre.

A vederla giocare così, il Creatore rideva dalla gioia; mentre essa si deliziava a stare con la gente. Chi è questa dolce figura inaspettata? È la Parola creatrice. Difficile non pensare al prologo del Vangelo di Giovanni (1,3), dove si dice che “tutto è stato fatto per mezzo di Lui”. Il Verbo che era fin da principio, il Logos, l’origine, il sostegno, la “logica” di tutto il creato.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi