Dopo lo spettacolare miracolo dei pani d’orzo, Gesù lascia tutti e si ritira sul monte tutto solo. Ha intuito che la folla vorrebbe acclamarlo re; un gesto pericoloso specie in Galilea, patria degli zeloti antiromani. Costringe con decisione i discepoli a salire in barca e a precederlo di là dal mare, perché vuole evitare che siano contagiati dall’entusiasmo politico della gente. Il giorno dopo la folla, con le barche, viene a Cafàrnao, la città dove egli è solito soggiornare. Gesù è proprio lì, pur non essendo salito in barca coi discepoli. Non sanno che egli, nel pieno della notte, ha camminato sulle acque per soccorrere i discepoli in piena tempesta (Gv 6,16-21). Perciò gli domandano, meravigliati, come fosse giunto fin là.
Più che rispondere a questa domanda, Gesù inizia un lungo discorso agganciato al miracolo del pane appena operato. Al centro c’è la definizione che egli da di se stesso: “Il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero. Io sono il pane della vita”. Nelle pagine che seguono, Giovanni sviluppa una vera catechesi eucaristica a forma di dialogo che progredisce con l’incalzare delle domande degli ascoltatori. Il brano di oggi sviluppa tre insegnamenti i progressione: il pane materiale, che la gente ha appena mangiato, non è il pane da cercare per primo nella vita, c’è prima un pane spirituale più importante che Gesù, Figlio dell’uomo, sta per donare. Esso è perfino più prezioso dalla manna, pane disceso dal cielo, che Dio diede ai padri nel deserto. Il pane vero, il pane della vita, quello che toglie ogni fame e ogni sete, è Gesù stesso. Per vederlo e accettarlo è necessaria la fede, opera di Dio.
Seguiamo lo sviluppo di questi tre concetti. Gesù esorta innanzi tutto i suoi interlocutori ad andare oltre il pane che li ha saziati fisicamente. Essi hanno visto il miracolo, ma non hanno percepito il segno in esso contenuto. Infatti chiederanno ancora “un segno”, e non si rendono conto che il pane appena mangiato è proprio il segno di un dono più grande che Dio ha fatto scendere dal cielo, il dono del Figlio inviato per la salvezza del mondo. Egli sazia una fame più profonda di quella fisica, quella del cuore, che è fame e sete di Dio. Al demonio che lo esortava a cambiare i sassi in pane, Gesù aveva risposto: “L’uomo non vive di solo pane” (Mt 4,4). Lo stesso ripete ora a quegli uomini che lo cercano per mangiare ancora gratuitamente. È comodo avere a disposizione la fabbrica dei miracoli, che dispensa dalla fatica per mangiare. Dio ha ordinato all’uomo: “Col sudore del tuo volto mangerai il pane finché non tornerai alla terra” (Gn 3,19).
Questa è la legge dell’economia umana, che non dispensa nessuno dal lavoro. Ma Gesù smaschera anche un altro atteggiamento umano, quello della ricerca del meraviglioso ovunque si trovi, quello della fede fondata unicamente sui prodigi. Esso spiega, almeno in parte, la devozione quasi fanatica delle folle verso i santi e luoghi ritenuti miracolosi. La rincorsa allo straordinario rischia di far dimenticare il quotidiano della vita di fede, fatta di pratica dei sacramenti, di preghiera umile e costante, di sacrificio e di lavoro affrontati per amore di Dio. Gesù esorta a ricercare ciò che dura, non ciò che passa. L’unica opera (Gesù lo chiama erga Theou = lavoro divino) che Dio desidera dall’uomo è credere in Cristo, cioè accoglierlo e seguirlo con obbedienza assoluta. Solo su di lui il Padre ha messo il suo “sigillo” (sphragis) di autenticità, accreditandolo come unico salvatore e datore di vita eterna. “Fuori di lui non c’è salvezza”‘ (At 4,12), chi non raccoglie con lui opere di bene, disperde e rende vuota la sua vita (Mt 12,30).
I giudei del tempo aspettavano il Messia, che avrebbe rinnovato i prodigi dell’Esodo come segno di autenticità, perciò, quando sentono parlare di sigillo di Dio che lo accredita come tale, chiedono di vedere di nuovo il miracolo della manna che aveva saziato i loro padri nella traversata del deserto. Fu quello l’evento decisivo che indusse gli antenati a credere in Mosè. Di fronte a quel prodigio che durò quaranta anni, il miracolo della moltiplicazione dei pani, visto poco prima, era poca cosa, un gioco da dilettanti. Per credere in lui come Messia, nuovo Mosè (Dt 18,15), ci voleva un segno almeno altrettanto grande e duraturo. Affiora ancora una volta il desiderio materialistico di mangiare a spese di Dio, dispensati dalla fatica. Una fede interessata che porta benefici umani tangibili, un specie di assicurazione sulla vita, una fede a pagamento. Gesù respinge una tale concezione della fede e afferma che non fu Mosè a compiere il miracolo, come tangente da pagare per essere accettato quale condottiero di Dio, ma fu il Padre che volle elargire al suo popolo un dono gratuito e immeritato per saziare la sua fame. Ora egli stesso dona il suo Figlio come pane vero, cioè capace di trasmettere e mantenere vita divina al mondo intero.
Tornano alla memoria le parole dette pochi giorni prima da Gesù a Nicodemo, un rabbi giudeo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). A questo punto Gesù dichiara solennemente: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. Fame e sete sono le esigenze fondamentali di ogni uomo. Gesù assicura che egli come pane e come sorgente di acqua viva (4,14) soddisfa pienamente ai più profondi e veri bisogni umani. Egli è disceso dal cielo, facendosi uomo, per poter donare la sua carne e il suo sangue sotto il segno del pane e del vino. Così egli diventa più intimo a noi di noi stessi, perché ci assimila a lui.
Noi diventiamo ciò che mangiamo, cioè una cosa sola con Cristo, che è per noi pane di vita divina. Con lui e in lui noi viviamo come figli di Dio per sempre. È questo un discorso che, dopo due millenni, non ha perso la sua attualità. È rivolto a gente come noi, che vive solo l’aspetto materialistico della vita, uomini sazi nel corpo, ma vuoti nello spirito, ricchi di benessere, ma poveri di fede. Ha di mira persone che hanno bisogno, come i giudei di allora, di puntellare la loro debole fede con i prodigi, inseguendo qua e là persone e fatti sensazionali che rasentano la superstizione. Fedeli bisognosi di devozioni rassicuranti o di pratiche esoteriche. Difficile rimettere al centro della nostra vita le parole certe di Gesù, che assicura di estinguere la nostra fame e sete di sacro senza bisogno di surrogati.