Sono tempi, questi, di grandi discussioni collettive: famiglia, scuola, migranti. È utile proporre una riflessione sulle dinamiche comunicative all’interno delle quali tali dibattiti si inseriscono.
Pur permanendo uno spazio di risonanza sui media classici (che però sembrano sempre più rivestire un ruolo limitatamente assertivo), è palese come il fermentare di notizie e controversie abbia cittadinanza all’interno del mondo social.
È una realtà evidente per chi li “abita”, quanto escludente per i pochi che – pur per ragioni legittime – provano a decifrare la polis come se questa rivoluzione della comunicazione e del pensiero non fosse avvenuta.
“Mi piace”… cosa?
Il mondo social investe chi lo abita di due funzioni: quella di poter dire la propria, e quella di potersi informare per poter dire la propria. Se sul “dire la propria” si è discusso e scritto, è sul potersi informare che vale la pena spendere qualche pensiero.
Chi usa Facebook sa che gran parte del tempo passato su questo social consiste nello scorrere la bacheca della home, dove compaiono gli stati, le condivisioni degli amici, ma anche gli aggiornamenti delle agenzie informative – soprattutto testate on line e blog – sulle quali l’utente ha cliccato mi piace.
Questo processo pare innocuo: cliccherò mi piace su ciò che mi interessa per seguirne gli aggiornamenti, il negozio di chitarre, ad esempio, e non cliccherò mi piace sul negozio di découpage.
Lo stesso processo diventa però cruciale se dal negozio di hobbistica si passa alla fonte informativa su temi importanti. Facciamo un esempio attuale.
Ipotizziamo due utenti Facebook, fortemente interessati ai temi messi in campo dal recente Family Day, ma con visioni antropologiche e appartenenze culturali del tutto opposte. Senza allontanarci troppo dal vero, possiamo prevedere che ciascuno metterà mi piace e quindi seguirà blog o quotidiani coerenti con la propria visione, aumentando così nel tempo fonti monocolore, in modo proporzionale al grado di militanza dall’una e dall’altra parte.
Ovviamente ci sarà anche chi per libertà personale avrà nella sua home fonti di segno opposto, ma è innegabile che mettere mi piace a una testata o blog di segno opposto alla propria appartenenza costituisca una soglia psicologica non irrilevante.
In sintesi, maggiore sarà l’uso e la cittadinanza nel proprio mondo di riferimento, maggiore sarà il modellarsi della propria “socialsfera” alla propria visione culturale. L’ambiente in cui ci si troverà gradualmente a navigare, come un guanto, aderirà in modo sempre più armonico con la propria verità, sempre più confermata.
E allora che succede?
Fin qui si è semplicemente descritto un dato di realtà. Ma quali le implicazioni? Non ci vuole molto. Il livello di polarizzazione tra posizioni distanti sale alle stelle, e la possibilità di un confronto che abbracci la complessità di posizioni diverse diventa arduo.
Per cattiva volontà dei social-cittadini? No, ci mancherebbe. Ma per un processo tanto semplice quanto inevitabile: un sistema personale così auto-costruitosi nel tempo, su misura dell’utente, non lascia spazio a dubbi o possibilità dal mettere in crisi le proprie idee.
Facciamo un altro esempio. Poniamo la possibilità di disporre di due profili sperimentali, uno pro-vita, uno pro-Lgbt, maturi ed espansi, ossia ben caratterizzati dal mondo culturale di riferimento in termini di amicizie e mi piace. Poniamo la possibilità di una consultazione da parte terza delle due diverse narrazioni sul tema gender per quanto postato da amici e agenzie di informazione.
Quale sarebbe il risultato? Di sicuro, quello di due narrazioni comunque solide. Il problema ovviamente è che nessuno dispone abitualmente di questo Dottor Jekyll & Mr. Hyde (a prescindere da quale sia la parte buona e quella cattiva).
Molto più realisticamente, esistono sì utenti social che per storia, disponibilità e anche libertà riescono, seppur parzialmente, ad abbracciare uno spettro non polarizzato di posizioni, ma sono – ne restiamo convinti – la minoranza. È alta la sensazione che un “contenitore informativo” così determinato contribuisca non poco alla polarizzazione estrema che sembra investire i dibattiti più caldi di questo periodo.
Conclusioni
Già dalle prime righe sentiamo il levarsi di scudi dei social-cittadini schierati sì, ma liberi, critici e informati. Nessuna paura, ci mancherebbe che non si desse spazio a questa opzione. Il problema è capire quale sia la tendenza di base che investe la maggioranza degli utenti.
Rimane il dubbio che anche i più consapevoli tendano a drenare le proprie occasionali perdite di certezze o a ovattare l’insorgenza di dubbi mediante condivisioni da fonti che blocchino prontamente ogni cedimento all’autocritica.
Spesso la formula ricorrente è la stessa: condivisione di un articolo a rinforzo delle proprie certezze, magari introdotto da due-tre righe di commento personale e quindi pletora di commenti degli amici, spesso e volentieri in un crescere di radicalismo.
Perché poi il dato che rimane è questo: c’è più dialogo, più possibilità di confronto in queste praterie che sembrano essere sconfinate? A nostro parere, non tanto, o perlomeno, una maggiore consapevolezza gioverebbe un po’ a tutti. Soprattutto capire se al primo posto venga l’affermazione della mia-verità-a-prescindere o la dignità della mia-verità-che-sappia-interrogarsi-per-diventare-relazione.
Un’ultima chiosa. Le agenzie informative fanno il loro mestiere. Noi utenti comuni recepiamo informazioni, assumendole nel nostro corredo di fonti. Ma spesso ciò avviene senza quella specifica formazione, che permette di cogliere a fondo criteri e concetti sui quali nascono le stesse informazioni.
Ne siamo quindi fruitori, beneficiari ma anche vittime. Va anche ricordato come questa fase nuova della circolazione delle idee usufruisca di contenitori comunque privati. Perché i social sono di due, tre nel mondo, e questo non li rende una cosa neutra (Twitter ad esempio segue logiche del tutto diverse, con implicazioni ulteriori).
Immaginiamo come cambierebbero milioni di relazioni personali se un giorno Zuckerberg decidesse di inserire il tasto non mi piace. Ma questo è un ulteriore discorso.
Non nascondo alcune perplessità. Concordo che occorra se possibile diversificare le fonti di approvvigionamento informativo, ma non sono affatto dell’opinione che questo significhi mettere il “mi piace” a tutto e al contrario di tutto. Come si procede? Come sempre per l’essere umano: per scelte. Sono scelte libere, coerenti, efficaci, disinteressate, convinte? Oppure sono indotte, compulsive, fallaci, conniventi, casuali? La risposta migliore che mi viene in mente è: dipende. Dipende da molti fattori, e il livello culturale non è affatto quello più dirimente. Io non me la prendo la responsabilità di dire che tutti quelli che clickano su qualsiasi cosa lo fanno in modo meccanico, per incaponirsi su un solo punto di vista e per ottenere l’impennarsi della discussione su piani di scontro.
Credo invece che il gregge, benché ammannito da tante chiacchiere, abbia un bel fiuto per la verità e per due motivi: la vita è una, e preme. E questa è una cosa che molta parte del mondo intellettuale pare non comprendere. Vent’anni fa con 1000 lire in tasca e mezz’ora scarsa di tempo al giorno ti potevi permettere un solo giornale e un solo tg. Oggi che abbiamo, se possibile, meno soldi e tempo di vent’anni fa, le notizie ce le facciamo scivolare nel telefono: da chi ce le facciamo raccontare? Credo che il criterio non sia cambiato: da chi abbiamo scelto di fidarci. Che se poi dimostra che non ha meritato la nostra fiducia, oggi farà forse un po’ più di fatica a nascondersi dietro un dito.
Anche io voglio fare un esempio: all’indomani della piazza del 20 giugno, un noto sito FB che si occupa di psicopedagogia, da me seguito per motivi professionali, è uscito con un comunicato ufficiale volto a rassicurare l’utenza. La sostanza diceva che la teoria gender NON ESISTE (scritto così). C’è stato un bel dibattito, pacato, circostanziato, ciascun utente ha proposto riflessioni, link ad approfondimenti, testate scientifiche, studi. Risultato, a ogni intervento dissonante, come un disco rotto, la stessa risposta: la teoria gender NON ESISTE, stai serena. E come no.
Ho immediatamente tolto il “mi piace”, per un’evidente mancanza di presupposti di professionalità e lealtà. Perché la gente normale non ha una verità da difendere: pensa che quella si difenda benissimo da sola, purché se ne possa parlare. Ma di sicuro non ha tempo da perdere con chi finge desiderio di ricerca, empatia, dialogo. Questi sono trucchetti vecchi quanto il mondo.
Innanzitutto grazie del commento, Sabrina. Concordiamo su quanto lei esprime. Dapprima sulla positività dei social: potremmo fare tanti esempi, come l’uso che se ne può fare per la didattica e per la ricerca. Concordiamo poi sulla libertà di preferire alcune fonti informative, sulla disponibilità di accedere a più informazioni come risorsa e non problema del nostro tempo, sulla capacità istintiva di riconoscere la normalità della verità.
La nostra riflessione non è però rivolta a un “gregge” particolare (secondo l’espressione che lei scrive), ma è potenzialmente rivolta a tutti i greggi possibili, tutti inevitabilmente aventi una qualche “verità”, a volte molto esplicitata e consapevole, a volte meno.
Questo sistema di verità viene riempito di informazioni, sulle quali non abbiamo sempre il pieno controllo. Per una constatazione semplice. Ognuno di noi per formazione ed esperienze comprende meglio alcune cose e meno altre, e noi stessi facciamo esperienza di quanto inevitabilmente dobbiamo prendere alcune informazioni in maniera più ingenua ed altre in maniera più critica e smaliziata.
Il caso del “Non esiste il gender” è emblematico, fa bene lei a citarlo, ed è solo l’esempio più evidente di quando le informazioni rischiano di ridursi a slogan e non si capisce più di che si sta a parlare, dove sia la sostanza dei concetti e dove inizia la propaganda. Ha fatto bene a non mettere “Mi piace” a questa pagina che cita, anche a noi capita spesso perché si percepisce una mancanza di professionalità.
Ecco, la nostra riflessione infondo vuol dire solo questo: assumere consapevolezza, da qualsiasi parte del gregge si stia. Non sarà facile, è un processo infinito di ascolto e comprensione. Ma i social hanno in sé anche quei rischi di cui ancora non siamo pienamente consapevoli, rischi che vogliamo insegnare ai giovani (peraltro senza pensare che i giovani usano i social che noi usiamo meno) come se noi ne fossimo avulsi.
“Raccontare” le cose non è mai una operazione “neutra”. La nostra era dell’informazione è un’era di grandi narrazioni. I contenitori in cui vengono narrate non sono indifferenti alla polvere che suscitano. Senza vederci malafede. Ma constatando che al centro deve restare la coerenza del dato, il rispetto per l’intelligenza e la buona fede delle persone e possibilmente il progresso della conoscenza per la crescita di tutti.
Grazie ancora e di cuore del confronto.
La prospettiva circa la polarizzazione causata dai social mi sembra illuminante. Mi sembra però che ci sia sempre stata. Forse è inscritta in certe dinamiche umane. Ormai molti anni fa ho tentato di essere catto-comunista. Risultato? Emarginato da entrambi. Ci vuole molta apertura di vedute, molta capacità di mettersi in discussione ed anche una buona dose di umiltà per scendere sul terreno del confronto.
Caro Paolo, tutto vero. Hai ragione. Sono dinamiche tipiche dell’essere umano. Concordiamo pienamente sull’umiltà. Grazie.