A chiusura dell’anno liturgico, facciamo nostra l’invocazione del ladrone pentito, compagno di sofferenza accanto alla croce di Gesù. Quest’ultima domenica dell’anno è dedicata a Gesù Cristo re dell’universo, perché egli è il Signore del tempo e della storia, il primo e l’ultimo nell’opera della creazione. Con il suo atto creatore nasce la storia del mondo, e con il suo ritorno alla fine dei tempi, nella gloria della sua signoria divina, la nostra storia si chiuderà. Per celebrare questa regalità il Vangelo ci riporta paradossalmente al momento culmine della crocifissione di Gesù. C’è qui una verità di fede fondamentale per il credente: Gesù è diventato re con la sua morte e risurrezione, ha regnato e regna dalla croce.
Paolo lo ha gridato per primo: “Mentre i giudei cercano miracoli e i greci cercano la sapienza, noi annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati (alla fede), sia giudei che greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1,22-24). Siamo davanti ad una regalità rovesciata, capovolta in confronto all’idea corrente nell’antichità e ai giorni nostri. Il limite estremo dell’umiliazione è divenuto il culmine della gloria. Ad annunciare questa rivoluzione è stato lo stesso Gesù, che aveva inventato il detto: “I primi saranno ultimi, e gli ultimi i primi” (Lc 13,30). Più specificamente ai discepoli aveva chiarito:”Voi sapete che i capi delle nazioni le dominano e i loro grandi esercitano su di esse il loro potere. Fra voi però non sia così; ma chi vuole essere grande tra voi si faccia vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sia il servo di tutti. Come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti” (Mc 10,42-45).
La vera regalità per Dio è quella del Crocifisso. Con questa chiarezza di idee, leggiamo il racconto proposto dalla liturgia. Appartiene alla narrazione più ampia della crocifissione di Gesù, composta da Luca in maniera ordinata, ma sintetica. L’evangelista rifugge da descrizioni macabre o patetiche. Dice in modo asciutto che Gesù fu crocifisso fra due “mal-fattori” (alla lettera, in greco kako-urgoi), e le sue prime parole dalla croce sono state di perdono per i suoi carnefici. La scena è variegata: c’è la folla silenziosa e inorridita che sta a guardare, i capi religiosi che lo deridono, pur riconoscendo la sua attività taumaturgica che ora dovrebbe sfruttare come prova delle sue pretese messianiche; ci sono i soldati che lo scherniscono dandogli a bere l’aceto, infine ci sono i due malfattori che in modo diverso lo interpellano. Ne risulta una triplice tentazione, che richiama le tre tentazioni subite da Gesù nel deserto (4,1-13).
Tutte convergono su un’unica sfida:”Salva te stesso!”. I soldati hanno appena fissato sulla cima della croce il cartello che il condannato portava appeso al collo e che conteneva il motivo della condanna: “Questi è il re dei giudei”. Quel “titolo” fornisce loro lo spunto per lo scherno: “Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso”. La sfida ha un apparente sapore di scherno, ma contiene una specie di proclamazione ufficiale dell’autorità romana. Giovanni dice che il cartello era scritto in tre lingue, ebraico, greco, latino; un’iscrizione poliglotta per dire a tutti la regalità di Cristo, che scavalca i confini della nazione giudaica. Del resto quel cartello è l’unica scritta contemporanea su Gesù, ha per contenuto la sua regalità e orienta l’attenzione proprio al centro del messaggio cristiano.
Quella proclamazione di regalità è confermata dai segni che accompagnano la morte di Cristo: l’eclissi di sole che sparge il buio su tutta la terra, a significare l’orrore della natura intera per la morte del suo sovrano; lo squarciarsi del velo del tempio, ad indicare che Dio non è più chiuso nell’ambito di una nazione, ma apre le porte della sua casa a tutti. La richiesta-sfida lanciata dai capi e dai soldati: “Salva te stesso”, è completata dalla “bestemmia”‘ di uno dei malfattori, che suona come invocazione, con una significativa aggiunta: “Salva te stesso e anche noi”. Dal punto di vista cristiano, è il riconoscimento dell’efficacia salvifica della regalità del Crocifisso, descritta nel racconto che segue. La prima risposta sta nell’invocazione dell’altro malfattore, che prende le difese di Cristo, riconoscendone l’innocenza in contrapposizione alla sua colpevolezza sinceramente confessata. Il suo è un atteggiamento di fede che si traduce in una supplica accorata, che ricorre qui per la prima e ultima volta: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
La richiesta inizia con l’invocazione del semplice nome di Gesù, non usata mai da nessuno fino a quel momento, e prosegue col riconoscimento che nella sofferenza di quel suo compagno di sofferenza c’è l’inizio di un regno spirituale capace di salvare lui e il mondo intero peccatore. Quell’uomo è il prototipo del credente che unisce la propria croce a quella di Cristo e ne viene redento; così la sovranità salvifica di Dio prende possesso di lui e lo libera dai suoi peccati. Per questa operazione di misericordia non è mai troppo tardi, la casa di Dio è aperta a tutti fino all’ultimo istante di vita. La risposta di Gesù è meravigliosa: “Oggi sarai con me in paradiso”. Sulle labbra di Cristo quel regno diventa il paradiso.
Nella lingua persiana da cui deriva, significa “giardino” e richiama l’Eden dove la prima coppia umana visse felice. Per i cristiani diventa sinonimo di “vita eterna”, di felicità e di beatitudine senza fine con Dio. La frase vuole affermare la sopravvivenza della persona dopo la morte e la sua unione con Cristo in Dio (1 Tes 4,14). Nessuno, morendo, scompare nel nulla. C’è un “oggi” del regno di Dio che raggiunge tutti individualmente in vita e in morte, e c’è un domani collettivo di resurrezione che ci raggiungerà alla fine dei tempi. Il regno di Dio è a cavallo tra il “già” e il “non ancora”. Abbraccia il presente e il futuro, il tempo e l’eternità.
La morte di Gesù in croce è una morte regale che produce salvezza. Il primo ad accaparrarsela è il malfattore pentito (ladro fino in fondo!, direbbe sant’Agostino), poi il centurione che comanda il manipolo di soldati incaricati della crocifissione, poi le folle finora rimaste a guardare, e che rientrano in città battendosi il petto. Solo i capi non si convertono e rimangono fuori della sovranità salvifica di Cristo, perché si escludono volutamente dal suo regno. Si attuano qui le profezie del Giusto sofferente che, con la sua morte, provoca la conversione di molti. Tale conversione è descritta dal Salmo 22 (vv. 28-30) e dal profeta Isaia nell’ultimo canto del Servo del Signore (53,12). La base della signoria misericordiosa di Gesù è sul Calvario (il luogo del cranio), nel sacrificio estremo della sua vita offerta per amore. Il racconto di Luca iniziava con la preghiera di perdono del Crocifisso e termina con la conversione del malfattore suo compagno di sofferenza, del centurione esecutore materiale del supplizio, della folla che ha assistito alla scena. La regalità di Cristo si afferma qui e da qui si espande.