di Andrea Zaghi
Siccità anche in alta montagna. Con tutto quello che ne consegue, anche in termini produttivi ed economici. A sollevare il problema sono stati ancora una volta i coltivatori diretti. E con ragione, visto che proprio in questi giorni l’agricoltura di montagna inizia a vivere uno dei suoi momenti più intensi e produttivi. Il monitoraggio condotto da Coldiretti non lascia spazio a molte speranze.
L’organizzazione parla di una “situazione drammatica sui pascoli in altura, che coinvolge vaste aree montane dalla Lombardia al Veneto, dal Piemonte all’Emilia, con prati secchi che costringono le greggi a spostarsi sempre più dentro nei boschi; caldo anomalo, fonti d’acqua in affanno, con gli animali che rischiano di non avere da bere, e in alcuni casi vengono dissetati da rifornimenti di emergenza trasportati con gli elicotteri, con le autobotti e con le cisterne trainate dai trattori”. In conseguenza della mancanza di acqua, le mucche stanno producendo tra il 10 e il 20% di latte in meno. Cosa significa tutto questo?
Dal punto di vista immediato, oltre ai maggiori costi di produzione e al rischio concreto di un abbattimento della produzione stessa, la prospettiva è quella di un ritorno a valle delle mandrie in tempi piuttosto brevi. “La situazione dei pascoli in montagna è molto critica – aggiunge Coldiretti –, e in diverse zone si sta procedendo anticipatamente con il secondo taglio di fieno per salvare il salvabile, visto che dal punto di vista della quantità si sta raccogliendo il 40% del foraggio che invece si sarebbe in una stagione normale. Molte aziende sono costrette ad acquistarlo a prezzi altissimi, quando riescono a trovarlo”.
Ma c’è dell’altro. Stando sempre ai coltivatori, infatti, si sta assistendo a “un profondo cambiamento del paesaggio dai pascoli ai ghiacciai. La mancanza di acqua sta mettendo in crisi un sistema fondamentale per l’agricoltura e l’allevamento in montagna, mettendo a rischio produzioni tipiche, dai formaggi ai salumi”. Quanto tutto questo sia irreversibile è ancora difficile dirlo, ma che stia accadendo è un fatto. Se poi agli effetti della siccità appena descritti si aggiungono quelli dell’ondata di incendi che sta devastando centinaia di ettari di bosco in svariate aree della Penisola, si capisce bene la complessità della situazione. E non basta ancora, perché siccità e caldo, oltre agli incendi, stanno favorendo anche un netto cambiamento dell’assetto delle risorse idriche del Paese. A questo proposito, in questi giorni l’Associazione dei consorzi irrigui e di bonifica (Anbi) ha lanciato un nuovo allarme.
“I prelievi d’acqua a profondità maggiori dichiarano – comportano gravi rischi per l’equilibrio idrogeologico. La risposta alla siccità non può essere la cultura del pozzo, bensì l’utilizzo razionale delle risorse di superficie, che devono essere incrementate, diminuendo la percentuale d’acqua che termina inutilizzata in mare, oggi pari all’89% dei circa 300 miliardi di metri cubi di pioggia, che annualmente cadono sul nostro Paese”. Già, “cultura”. Quanto richiamato da Anbi va nella direzione giusta. Ciò che sta accadendo oggi, pur avendo cause naturali, è anche frutto della carenza di una cultura della prevenzione e dell’investimento, del razionale uso delle risorse e della loro conservazione. Premura che in Italia, ma non solo in Italia, per troppo tempo è mancata, o comunque è stata poco coltivata. C’è quindi molto da fare, e bene e in fretta.