“Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini VII Domenica del tempo ordinario - anno A

“Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo”. Questa è l’apertura della liturgia della 7a domenica del tempo ordinario. Il significato sembra così lampante da non aver bisogno di spiegazioni. Salvo poi dirsi mentalmente: ma come è possibile? Dio è Dio. Io non sono Dio. Questa parola non può essere per me; sarà per qualcun altro… E invece questa parola è proprio per me e per te. Si tratta di capirne il senso. Ci impedisce di capirlo l’abitudine a pensare in termini moralistici le cose che riguardano il nostro rapporto con Dio; ossia come se tutto ci fosse richiesto, facendo forza unicamente sulle nostre capacità naturali. Due versetti dell’Antico Testamento ci serviranno da chiave di lettura. Nel libro del profeta Osea è scritto: “Io sono Santo in mezzo a te, perché sono Dio e non un uomo” (Os 11,9).

Questo vuol dire che la santità è l’essenza intima di Dio. Dunque Dio è radicalmente diverso dall’uomo. Nel Deuteronomio troviamo un’altra parola, complementare a quella di Osea: “Tu sei un popolo santo per il Signore tuo Dio, perché Egli ti ha scelto” (7,6-7). Dunque anche Israele è santo; ma solo perché Dio lo ha reso partecipe della propria santità, scegliendolo come sua proprietà speciale, chiamandolo a far parte della propria famiglia, a prescindere dai suoi eventuali meriti precedenti. Questa partecipazione d’altra parte assume un aspetto obbligante: Israele dovrà esprimere la propria identità di popolo santo nel concreto del suo vivere e dei suoi comportamenti. La Bibbia lo esprime dicendo che Israele dovrà camminare nelle vie di Dio. Vista così, l’esortazione biblica ad essere santi appare come un frutto che scaturisce dalla condizione in cui ci ha posti la partecipazione alla vita di Dio, al suo amore gratuito, e non come sforzo moralistico, inevitabilmente frustrante.

In questo steso contesto si colloca l’odierno brano del Discorso della montagna, che ha come perno quel comandamento, umanamente impensabile, che è l’amore al nemico. Amare colui che ci ama, si direbbe naturale: “amore con amor si paga”, dice l’antico proverbio. Bisogna essere molto malvagi per ripagare con il male chi ci ha fatto del bene; ordinariamente l’uomo risponde con amore all’amore, con la stima alla stima, alla gentilezza con la gentilezza. Ma chi può dare amore a chi ti odia, o considerazione a chi ti disprezza, o simpatia a chi ti insulta, se non uno hai ricevuto gratuitamente da Dio un briciolo del Suo amore gratuito? La norma dell’“occhio per occhio e dente per dente” fu, a suo tempo, una conquista di civiltà. Ma Gesù la scardina e propone qualcosa di molto più radicale: “Io vi dico di non opporvi al malvagio” (Mt 5,39). L’obiezione più corrente a questa parola del Signore suona più o meno così: “Se lo lascio fare, va a finire che mi distrugge”.

E con questo giustifichiamo le nostre risposte violente. Salvo poi scoprire con sorpresa che la nostra violenza non solo non ha interrotto la prima, ma ha innescato la spirale delle reciproche malvagità, che non si interromperanno fino a quando non ci sarà qualcuno disposto a farsi carico di tutti i torti subiti. Questo ha fatto Gesù, che ha lasciato infrangersi sulla croce la violenza subita. “Non lasciarti vincere dal male – scriverà Paolo ai cristiani della comunità di Roma – ma vinci il male con il bene (Rom 12,21). Per la verità, in nessun passo dell’Antico Testamento si trova esplicitamente comandato l’odio al nemico, come sembrano significare le parole su cui stiamo riflettendo (v. 43).

L’insegnamento di Gesù in realtà pone l’accento sulla necessità che i discepoli non facciano distinzioni, nell’operare il bene, fra gli appartenenti allo stesso clan o allo stesso popolo, allora considerati prossimo, e quelli di fuori, ritenuti nemici; e questo a somiglianza del Padre celeste, che tratta con lo stesso riguardo buoni e malvagi; tant’è lascia sorgere il suo sole indistintamente sul campo degli uni e su quello degli altri; e così fa anche con la pioggia. Anzi Gesù lega a questo comportamento equanime dei discepoli, la possibilità di essere a tutti gli effetti figli del Padre (v. 45). L’insegnamento su questo tema cresce ancora e si allarga nei versetti successivi (vv. 46-47). Si parla ancora dell’amore e si aggiunge il tema del saluto. Amare e dare il saluto. Farlo con chi già lo fa verso di noi, non è una difficoltà: lo fanno tutti. Come dire: non era necessario mettervi al mio seguito, per fare ciò che sanno fare tutti. Dovremmo riflettere su queste parole, quando istintivamente pensiamo che essere buoni cristiani coincide con l’essere persone bene educate e onesti cittadini.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi