Siamo o non siamo in guerra?

L’editoriale

Sarà un’impressione, forse esagerata, ma da alcuni giorni si nota più forte ed evidente il rombo dei motori di aerei invisibili che attraversano il cielo, e fanno pensare alla Libia. In altri momenti quel rumore faceva solo sognare viaggi di piacere verso mete turistiche. Il diverso modo di percepirlo è segno che qualcosa è cambiato. Il presidente Napolitano ha detto perentoriamente: “Non siamo in guerra”. È vero, non abbiamo un nemico che ci assale. Andiamo a colpire postazioni militari e strumenti di guerra perché sia evitata una repressione violenta della rivolta in atto contro il governo libico. Un’“ingerenza umanitaria”, collettivamente intrapresa da nazioni collegate insieme come Paesi “volenterosi”, legittimata dalla risoluzione 1973 decisa dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. La posizione della Chiesa assunta dal Papa e dal card. Bagnasco la riportiamo a pag. 8. Qui si vuol dire che dobbiamo nutrire la speranza, pronti a pregare e operare per una pace prossima e duratura per quei Paesi che sono in agitazione per realizzare un diverso assetto della loro società. Sarà opportuno, tuttavia, non sfuggire di proposito dall’idea che c’è in atto, in tante parti del mondo e per motivi diversi, una lotta da sostenere nella vita sociale e personale. Una lotta che investe anche i cristiani. Questo giornale esce in data 25 marzo e dà per scontato che nella cristianità si sia celebrato o almento ricordato il Giorno della memoria dei martiri cristiani datato 24 marzo, giorno dell’assassinio del vescovo Oscar Romero di San Salvador, avvenuto appunto il 24 marzo 1980, mentre celebrava la messa. Da allora ogni anno si fa la conta e la memoria dei martiri. Nel 2010, quelli conosciuti e documentati, sono stati 23. Essi costituiscono la punta di un iceberg, formato da tanti testimoni della fede vittime di violenze fisiche e morali. Tra questi non è compreso Shahbaz Bhatti, l’unico ministro cristiano nel governo del Pakistan, crivellato di colpi di arma da fuoco il 2 marzo scorso a Islamabad. La sua colpa è stata di essere cristiano e di battersi per la difesa dei diritti civili e per l’abolizione dell’iniqua legge sulla blasfemia, per cui chi osa fare critiche a Maometto può essere condannato a morte. È l’ultimo splendido esempio di un martire della fede del nostro tempo. Bhatti ha affrontato la difficile sua lotta con coraggio. Ha scritto tra l’altro nel suo testamento: “Mi sono state proposte alte cariche di governo… ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita… Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere, voglio solo un posto ai piedi di Gesù… Mi sentirei privilegiato qualora Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per lui voglio morire”. “Così muoiono i cristiani”, ha esclamato un collega giornalista dopo aver letto questa e altre dichiarazioni di persone che hanno affrontato la morte a viso aperto. Da ciò si deve trarre la conseguenza che siamo in guerra, nelle varie guerre della vita individuale e sociale: non nel senso della risposta violenta, ma con la forza della testimonianza, portando aiuto ai deboli e oppressi, con la fiducia nella preghiera e la speranza che trionferà la giustizia e la pace, continuando a testimoniare con coraggio la fede e i valori ad essa connessi. Anche con le armi dell’“ingerenza umanitaria”, come ultima, difficile e sofferta ratio? Questo è ancora un problema.

AUTORE: Elio Bromuri