Si riaccende la tensione tra Politica e Magistratura

Il conflitto magistratura - politica presenta una doppia anomalia. E frena le attese dei cittadini dopo le elezioni

Quello relativo all’emendamento governativo sulla sospensione dei processi meno gravi è solo l’ultimo capitolo di una storia infinita: quella del conflitto fra politica e giustizia in Italia. Un conflitto già grave negli anni Ottanta (allora a guidare le ‘ostilità’ nella classe politica era Bettino Craxi), ma poi divenuto drammatico ed endemico dopo il 1992. In particolare, la cosiddetta seconda Repubblica è stata sinora costantemente attraversata dallo scontro frontale fra Silvio Berlusconi (e con lui – più o meno compatto – il centrodestra) e le organizzazioni rappresentative della magistratura (soprattutto quella requirente). L’emendamento presentato dai senatori Berselli e Vizzini al decreto legge n. 92/2008, recante misure urgenti per la tutela della sicurezza pubblica, con il quale si dispone la sospensione per un anno dei processi per i reati meno gravi, compresi quelli già in corso, si presta, ovviamente, a varie obiezioni, da più parti già formulate. Dal punto di vista formale, appare estraneo per materia al decreto legge cui è stato agganciato (e ciò lo espone a dubbi di costituzionalità, anche alla luce della recente sentenza n. 128 del 2008 della Corte costituzionale, anche se esso si innesta su una serie di precedenti dello stesso tipo: si ricordi per tutti l’emendamento ‘anti-omofobia’ inserito nel dicembre scorso dal Governo Prodi nel decreto sulla sicurezza). L’emendamento è inoltre retroattivo: sospende, infatti, non solo i processi futuri, ma anche quelli già in corso, con una evidente diseconomia processuale (cui si aggiunge il sospetto che il tutto sia motivato da uno specifico processo di quel tipo, in cui è imputato il Presidente del Consiglio). Infine, esso è criticabile per il vulnus all’indipendenza della magistratura requirente, che nel nostro sistema è garantito dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, previsto dall’art. 112 della Costituzione. Non ci si può però fermare qui, e non certo per scrupolo bipartisan. Non da oggi, infatti, la magistratura – che la Costituzione qualifica come ‘ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’ (art. 104) e che nel nostro sistema è un potere diffuso, non un’organizzazione chiamata ad esprimersi in maniera unitaria – agisce come un potere in qualche modo politicamente orientato e condizionante. L’Associazione nazionale magistrati si ritiene legittimata ad intervenire su ogni questione, con una logica da sindacato-partito che stride con l’indipendenza dell’ordine giudiziario. Lo stesso Csm si atteggia a contropotere e fa un uso dubbio – quasi a mo’ di clava – dei pareri sui disegni di legge, che spesso gratuitamente decide di rilasciare. Nel potere giudiziario, poi, albergano ormai visioni ipercreative del ruolo dei giudici, che tendono troppo spesso ad aggirare la legge e a disapplicarla, magari con l’argomento dell’interpretazione conforme a Costituzione (in cui, però, la Costituzione è spesso poco più che un pretesto). Soprattutto, per quanto attiene alla vicenda in esame, l’obbligatorietà dell’azione penale – in virtù della quale non sarebbe possibile scegliere un ordine di priorità fra diversi tipi di processi, dovendo sempre essere esercitata l’azione penale in presenza di una notizia di reato – è ormai un vero e proprio feticcio: la quantità elevata di casi che i magistrati devono fronteggiare li obbliga in qualche modo a scegliere su quali puntare; e questa scelta, in fondo politica, mal si addice ad un organo, come il pubblico ministero, che è privo di legittimazione democratica. Sarebbe forse più coerente affidare l’individuazione delle opzioni preferenziali di politica criminale ad organi democraticamente legittimati, quali il Governo o forse ancor più il Parlamento. Un indirizzo parlamentare di politica criminale è oggi ritenuto impraticabile proprio per il citato principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ed è in quest’ottica che si spiega l’emendamento governativo. Esso, in altri contesti (ovvero: senza retroattività, in assenza di un processo pendente con il premier come imputato, e senza la via dell’emendamento in corso ad un decreto legge che parla di altro) sarebbe, come questione in sé, tutt’altro che ingiustificato. Si tratta, in fondo, di una soluzione rozza e formalmente scorretta ad un problema sicuramente esistente. Proprio per queste ragioni è ancora possibile – forse – un soprassalto di ragionevolezza. È ormai chiaro che il conflitto di interessi del premier (fra processi che lo riguardano come imputato e questione giustizia) e l’oltranzismo della magistratura (o almeno di quella parte di essa che ne esercita di fatto la leadership in questi giorni) rendono entrambi un cattivo servizio al Paese. E che questa doppia anomalia italiana pesa come un macigno sulla stagione nuova che il Paese si attende all’indomani delle elezioni.

AUTORE: Marco Olivetti