La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.
Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.
Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. – Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).
Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.
Il cammino della croce
Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).
Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.
Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.
Il segreto per non morire
Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).
La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).
La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.