È difficile schematizzare secondo le nostre esigenze logiche il discorso tenuto da Gesù ai piedi del monte. Anche Matteo ha riportato una serie di insegnamenti analoghi nel lungo “Discorso della montagna” (Mt 5-7). Luca ha raccolto dalla catechesi apostolica del suo tempo solo alcuni detti, tenuti insieme dal tema dell’amore verso il prossimo, con particolare riferimento all’amore verso i nemici che ne è il culmine. Solo l’autentica conversione al regno di Dio annunciato da Gesù rende possibile l’accettazione e la pratica di precetti tanto paradossali. Gli insegnamenti sono riportati in prosa ritmata, adatta alla recitazione e alla trasmissione mnemonica.
Questo fa pensare ad una catechesi che puntava a far imparare a memoria queste parole di Gesù, ritenute particolarmente importanti per la vita cristiana. Si tratta di un insegnamento impegnativo, caratteristico, che nessuno poteva ignorare; tutti erano chiamati a viverlo come cammino di perfezione. Questa poesia didattica è composta di tre strofe che affrontano a tappe il difficile tema dell’amore dei nemici, specifico dei seguaci di Gesù. La prima strofa va subito al cuore del problema suggerendo quattro esempi pratici più un principio generale (vv 27-31); la seconda strofa contrappone tre atteggiamenti umani comuni a tre esigenze specifiche dell’amore cristiano (vv 32-35); la terza strofa descrive l’esercizio pratico dell’amore all’interno della comunità cristiana (36-38).
Le severe esigenze contenute in questi insegnamenti riguardano persone convertite alle quali Dio stesso ha dato un supplemento di amore divino (agapè), che sorpassa di gran lunga il semplice amore umano naturale (philìa). A chi si muove solo sul piano umano razionale, esse appaiono assurde e impraticabili. D’altra parte esse non sono una legge da applicare, ma il culmine di un cammino di fede lungo e laborioso. Non mettono l’uomo a confronto con una legge, ma con l’infinita misericordia di Dio da imitare. Esigono cristiani maturi, non principianti all’acqua di rose. La prima strofa di questo canto d’amore prende subito di petto le esigenze paradossali dell’amore cristiano espresse nei verbi: amate, fate del bene, benedite, pregate. Al cristiano è proibito odiare, conservare rancore, vendicarsi. Egli deve sempre sforzarsi di amare anche i nemici.
In concreto questo amore-perdono si traduce nel fare del bene a chi ci ha fatto del male, nel benedire sempre e mai maledire, nel pregare per chi ci tratta male. Gesù scende poi ancora più nel concreto quotidiano con quattro esempi: lo schiaffo non ricambiato, la spogliazione non ostacolata, anzi facilitata, la richiesta mai rifiutata, il prestito non rivendicato. Sono esempi paradossali che dicono come la generosità dall’amore sia senza limiti per un vero seguace di Gesù. Se l’amore raggiunge queste vette eroiche, entra nel terreno della perfezione, fuori di ogni mediocrità. La strofa si conclude con una massima sapienziale che la tradizione cristiana antica chiamava ‘la regola d’oro’ del comportamento: “Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.
Negli scritti antichi la troviamo per lo più formulata in forma negativa: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”. Gesù la traduce in maniera positiva perché l’amore da lui insegnato non può produrre un atteggiamento passivo; deve prendere l’iniziativa del bene, senza accontentarsi semplicemente di astenersi dal male. La seconda strofa dell’etica dell’amore mette a confronto la morale naturale con quella evangelica. Descrive perciò tre atteggiamenti comuni facili da praticarsi: “Amare chi ti ama, fare del bene a chi ti fa del bene, prestare a chi ti restituisce”. Sono azioni senza merito, tutti sono capaci di compierli, anche gli atei e i pagani. Questo tipo di amore è basato sulla simpatia, sul beneficio sperato e sul ricambio. Amare, per il cristiano, significa invece estendere la propria azione benefica anche al nemico che ti odia, all’ingrato che non ti ricambia affetto e favori, e chi non ti restituirà mai il tuo prestito.
La ricompensa per queste buone azioni sarà grande perché così si diventa figli di Dio. La ricompensa non è un bene materiale da ricevere, ma un rapporto personale da approfondire. Il cristiano non ama per ottenere da Dio il premio, ma per diventare sempre più figlio dell’Altissimo, per entrare sempre più in comunione di vita e di affetto con lui. E non è poco! Dio non ha nemici, egli ama tutti, anche gli increduli e i malvagi. Chi è suo figlio lo deve imitare, sapendo che dall’imitazione deriva per lui una sintonia e un’unione vitale sempre più stretta. L’amore, come lo ha descritto Gesù, manifesta che chi lo pratica è vero figlio di Dio. “L’amore è da Dio, chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio… Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1 Gv 4,7.16).
La terza strofa del canto-catechesi inizia con un’esortazione che richiama ai figli di Dio il dovere di essere coerenti con la loro nuova natura: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”. Dall’essere figli nasce il dovere di nuovi rapporti umani, tradotti da quattro verbi: “Non giudicate, non condannate, perdonate, donate”. Lo specchio è la magnanimità, la misericordia, la generosità del Padre; qui ci si deve sempre specchiare per agire. Quattro figure familiari all’ascoltatore ebreo traducono la ricompensa di Dio: “una misura buona, pigiata, scossa, traboccante, quanta ne entra nell’ampia veste ripiegata per riceverla”. Alla fine della vita si potrà aprire con fiducia l’ampio sacco creato dall’amore per ricevere l’immensa felicità di Dio.