Salì al cielo con i prigionieri

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini Ascensione del Signore - anno B

La lettura evangelica di oggi è presa dai versetti finali del Vangelo secondo Marco. Dopo aver riferito le parole con cui Gesù si congeda dai suoi discepoli, l’evangelista riprende la narrazione interrotta, scrivendo che “il Signore Gesù… fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”. Nella prima lettura, il libro degli Atti degli apostoli drammatizza ulteriormente la scena, aggiungendo che “una nube lo sottrasse al loro sguardo” (At 1,9). Queste parole pongono qualche problema di comprensione alle nostre orecchie moderne. In realtà, quando le Scritture sante scrivono la parola “cielo” non fanno riferimento a quella che siamo soliti chiamare volta celeste, ma ad una dimensione ultraterrena, difficile per noi da immaginare, abituati come siamo a visualizzare tutto.

Il cielo è “là” dove Dio “abita”. Ma non possiamo localizzarlo. Al tempo di Gesù, gli ebrei credevamo fermamente che Dio fosse presente nel tempio di Gerusalemme. Poi Gesù affermò che il Tempio sarebbe stato distrutto e che il suo Corpo sarebbe stato il vero tempio. Più tardi i cristiani compresero che il corpo di ciascun credente battezzato è tempio dello Spirito santo (1 Cor 6,19). Nel giorno dell’Ascensione, Gesù semplicemente cessò di farsi vedere dai discepoli, pur rimanendo presente e operante nella comunità, e in tutti quelli che lo riconoscono come il Vivente, Primogenito di coloro che risorgono dai morti. “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

L’altra espressione, scarsamente comprensibile: “Sedette alla destra di Dio”. Per la verità la ripetiamo tranquillamente nella recita del Credo, incuranti di afferrarne il senso. Nel linguaggio dell’antichità biblica, sedere alla destra di qualcuno, era come dire: essergli pari. Dicendo che Gesù si sedette alla destra di Dio, i nostri antichi Padri intesero confessare la divinità di Gesù. Del resto non aveva detto egli stesso: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30)? Forse non tutti quelli che festeggiano l’Ascensione hanno la consapevolezza di quanto questa festa abbia a che fare con la vita concreta. In mezzo alla confusione di questi giorni, elezioni amministrative in varie parti d’Italia, cambio di presidenza in Francia, problemi seri in Grecia – per non parlare che di quello che accade nel cortile di casa nostra – tanti probabilmente si domandano quanto possa essere influente, per la storia attuale, un avvenimento antico come l’Ascensione e che pare perfino confinare con la leggenda.

La risposta si trova in una mezza riga della seconda lettura: “Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri…” (Ef 4,8). Così Paolo apostolo scriveva alla comunità cristiana abitante nella città di Efeso. Questa espressione ci risulta ancora più enigmatica. Non lo era tuttavia per i cristiani di Efeso, che condividevano con il loro ambiente culturale la visione del mondo secondo cui gli spazi fra la terra e il cielo erano pieni di misteriosi esseri viventi – che chiamavano Principati, Potestà, Potenze, Troni, Dominazioni… – ritenuti capaci di schiavizzare gli uomini per i loro interessi. Gli uomini, a loro volta, tentavano invano ogni sforzo per liberarsene. Paolo annuncia agli efesini che, salendo al cielo, Gesù ha tratto in schiavitù quelle potenze schiaviste, aggiogandole al suo carro trionfale.

Noi oggi abbiamo una visione ben diversa della realtà. È innegabile tuttavia che esistano forze di fronte a cui l’uomo avverte di essere irrimediabilmente più debole: che si tratti di poteri economici o politici, o comunque legati al denaro, o che si tratti di forze interiori come la paura, l’insicurezza del domani, la cosiddetta depressione… Gli antichi davano loro nomi diversi, ma si tratta delle stesse realtà, che anche noi oggi sperimentiamo. Coloro che allora divennero credenti riconobbero che Gesù aveva il potere di liberarli, e lo espressero a loro modo. Noi ci esprimiamo in modi diversi ma, come loro, intendiamo confessare Gesù come nostro vero Liberatore. È questa la Buona Notizia che i discepoli sono mandati ad annunziare “a ogni creatura” (Mc 16,15).

La parola Vangelo significa appunto Buona Notizia, l’annuncio cioè della liberazione da ogni schiavitù. La Lettera agli Ebrei commenterà che Gesù prese la nostra stessa natura “per ridurre all’impotenza, mediante la propria morte, colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). La paura della morte è il simbolo e la sintesi di ogni schiavitù. L’uomo tenta di difendersene, sottomettendosi al padrone della morte, che però gli impedisce di fare il bene, che pure egli vorrebbe compiere. La paura di perdere qualcosa fa percepire l’altro come una possibile minaccia. Con l’Ascensione, Gesù comunica al credente il suo Spirito, datore di una Vita che sa di essere custodita da un Potere più forte di ogni minaccia.

AUTORE: Bruno Pennacchini, Esegeta, già docente all’Ita di Assisi