Il brano evangelico che oggi la liturgia ci dona è facilmente divisibile in due parti. Nella prima, i versetti 10-14, assistiamo al dialogo tra il Battista e la folla che “ascoltato il suo invito alla conversione” gli chiede “che cosa dobbiamo fare?”. Domanda che risuonerà anche agli inizi della predicazione apostolica: alla testimonianza di Pietro, scrive sempre Luca in At 2,37, la gente rispondeva: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. È una delle questioni fondamentali dell’uomo che incontra Dio, e che implica la ricerca della salvezza. Così, ad es., la domanda del giovane ricco a Gesù: “Maestro buono, che devo fare per ottenere la vita eterna?” (Lc 18,18).
E alla risposta di Gesù replicano i discepoli con l’obiezione: “Allora chi potrà essere salvato?” (Lc 18,26).Il dialogo di Giovanni con la folla è esclusivamente lucano, non ci viene tramandato cioè dagli altri vangeli; si ha allora l’impressione che Luca abbia organizzato il discorso seguendo uno schema che poi verrà ripreso nella catechesi battesimale cristiana: la conversione è una cosa seria (vv. 7-9), che deve essere concretizzata non solo nel momento sacramentale del battesimo, ma nella vita quotidiana (vv. 10-14). Il richiamo alla vita ordinaria è interessante: il Battista “a chi lo interroga, non impone cose straordinarie, ma semplicemente l’esercizio della carità e la rettitudine nel compimento del proprio dovere: impegno nelle vicende reali della propria situazione professionale” (Ghidelli). Abbiamo un quadro che concorda perfettamente con il ritratto che lo storico Giuseppe Flavio ci fornisce del Battista: “Era Giovanni un uomo retto, il quale invitava i Giudei a praticare la virtù, la reciproca giustizia e la pietà verso Dio, e quindi ad accostarsi al battesimo” (Ant. 18, 117; trad. M. Simonetti).
Nella seconda parte del brano evangelico di oggi, il popolo si interroga sul Battista: è lui il Messia? E “Giovanni rispose a tutti dicendo” (v. 16). Il Battista così facendo ci fornisce l’identikit di colui che doveva essere il Cristo d’Israele, o almeno quello che Giovanni aspettava. Risponde con quattro definizioni: il Messia è uno più forte di lui; è l’unico degno di essere servito; diversamente da Giovanni battezzerà con Spirito Santo e fuoco; opererà un giudizio imminente. Per la piccola economia di questo commento ci possiamo soffermare solo sul primo aspetto. Chi è il Messia? È anzitutto uno più forte. L’aggettivo ischyros evoca tanti passi biblici, in particolare il libro dell’Apocalisse e le due lettere di Paolo alla comunità di Corinto. Il nostro termine ha un campo semantico che lo pone in stretta relazione con il sacro: Dio soltanto è il Forte in senso proprio (Balz’Schneider). È scritto ad es. in Ap 18,8: “Forte è il Signore Dio”.
E dice Paolo in 1 Cor 10,22: “Vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui?”. Riconoscere Dio come il più forte, soprattutto nel nostro tempo, è segno di una benedetta debolezza, che contrasta col pensiero comune. 2 Cor 12,10: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”. Sembra che la nostra identità si chiarisca rispetto ad un Altro più forte di noi. L’antitesi forza “di Dio” debolezza”dell’uomo” è forse la più profonda dinamica relazionale presente nella Bibbia: chi vuole vincere con Dio deve ‘arrendersi’ davanti a lui, alla sua santa volontà, riconoscendosi creatura. Come Giacobbe, il quale lotta con l’angelo (= Dio) e, pur vincendo contro di Lui (“Hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”; Gen 32,29), ne esce sconfitto e con il segno delle ferite (“Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca”; Gen 32,32).
“Sì che Tu sei terribile!”, scrive il Manzoni nel Natale del 1833, ancora scosso per la morte della moglie. “Onnipotente!”, chiude l’inno, dopo aver finalmente accolto con fede la sua volontà: “il voler nostro interroghi, /e a tuo voler decidi”. La superiorità del Messia, rispetto al Battista, si mostra nel fatto che Giovanni riconosca di doverlo servire, come lo schiavo che scioglie i lacci dei sandali del suo padrone; un servizio, questo, che solo a Dio è dovuto. Si potrebbe commentare applicando a riguardo il lucido principio della 1 Pt 2,17, dove si distinguono gli atteggiamenti che il cristiano deve tenere nella società: “Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re”. Al re lo stesso onore da dare a tutti gli uomini; un amore particolare per i fratelli (nella fede); solo di Dio si può essere servi. Infine, il Messia è superiore al Battista in forza del battesimo dello Spirito o battesimo di fuoco, che l’Unto solo potrà dare.
Immagine simile a quella del contadino che ha in mano il ventilabro. Tutte e due dicono il giudizio escatologico di Dio: “all’uomo si aprono due possibilità: un giudizio di salvezza, con riferimento allo Spirito che Dio verserà nel cuore per rinnovarlo dal di dentro; un giudizio di condanna, mediante il fuoco devastatore” (Rossé). Preghiamo chiedendo con la colletta che Dio ci rinnovi con la potenza del suo Spirito, e ci giudichi degni di riconoscerlo come il più forte, Colui che solo deve essere servito.