Pubblichiamo di seguito l’intervento di Giuseppina Bruscolotti tenuto in occasione della presentazione del libro La Bibbia dell’amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani, (a cura di Marco Cassuto Morselli – Giulio Michelini, 2019, San Paolo) tenutasi a Perugia giovedì 30 maggio per iniziativa della Libreria Paoline di Perugia e del Meic.
Il volume La Bibbia dell’amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da ebrei e cristiani, a cura di Marco Cassuto Morselli – Giulio Michelini è scaturito da un progetto che si fonda su due principi quali l’amore per la Sacra Scrittura e l’amicizia ebraico-cristiana. “Il volume è un prezioso lavoro che mette in luce il miracolo della diversità” (Etienne Vetò, Direttore Centro Cardinal Bea, Roma 18.03.2019). Esso è costituito dalle due prefazioni di Papa Francesco e di Abraham Skorka, dalle introduzioni generali, dalle introduzioni ai singoli libri della Torah/Pentateuco e da 34 commenti a pericopi scelte effettuati per metà da autori ebrei e per metà da cattolici. Papa Francesco ritiene il presente volume come un ulteriore frutto di un cambiamento che, dopo “diciannove secoli di antigiudaismo cristiano”, il mondo cristiano dimostra di essersi apprestato a fare. Scrive pertanto: “I valori, le tradizioni, le grandi idee che identificano l’Ebraismo e il Cristianesimo devono essere messe al servizio dell’umanità senza mai dimenticare la sacralità e l’autenticità dell’amicizia”.
A partire dalla Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II i rapporti tra cristiani ed ebrei hanno cominciato a rinsaldarsi anche se c’è ancora molto da fare soprattutto in merito alla lettura ‘ebraica’ della Bibbia.
A proposito suggeriamo un consiglio pratico, ovvero lo studio consapevole del documento della Pontificia Commissione Biblica che presenta il titolo “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (2001). In esso tra i vari aspetti si focalizza l’attenzione sui rapporti di continuità tra Antico e Nuovo Testamento e su quanto è doveroso il dialogo tra ebrei e cristiani e come il comune interesse per la Sacra Scrittura può avvicinare le due religioni.
Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne (Rm 1,1-3).
Da parte cristiana cattolica ci apriamo quindi allo studio dell’AT al fine di conoscere meglio Cristo e il NT. “Senza l’AT, il NT sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi” dice il Documento al n. 84. Sottrarre l’AT significherebbe sottrarre il fondamento su cui poggiano il giudaismo e il cristianesimo. Quindi è indispensabile “un rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’AT” (J. Ratzinger, Introduzione al Documento). Questo può far scaturire una certa reciprocità: i cristiani possono attingere ed arricchire l’interpretazione dell’AT servendosi dell’esegesi giudaica, dal canto loro gli ebrei -se vogliono- possono usufruire degli studi in ambito cristiano.
Presentiamo alcuni dei motivi che ci inducono a studiare ‘insieme’ la Bibbia ebraica, intendendo con Bibbia ebraica (TaNaK) i 39 Libri dell’AT che condividiamo sia ebrei che cristiani (ad eccezione cioè di Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide e Baruc).
1- Il cristianesimo nasce all’interno del popolo ebraico
Intanto è da ribadire che Gesù appartiene al popolo ebraico, così come gli apostoli e i discepoli (compresi i proseliti, cioè giudei convertiti dal paganesimo). Il cristianesimo nasce all’interno del popolo ebraico e San Paolo, nell’elencare i destinatari dell’annuncio evangelico, conferma in più occasioni la priorità del popolo ebraico: il Vangelo è “forza divina per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16).
2- La conoscenza dell’ebraismo
Imprescindibile per la conoscenza del NT è lo studio della lingua e dei modi di dire della Bibbia ebraica (sia nella lingua ebraica che greca). Il greco con cui sono pervenuti i Testi del NT deriva dal greco della LXX. Sostantivi come ‘angelo’ (angelos), ‘legge’ (nomos), ‘nazioni’ (ethn?) e ‘alleanza’ (diath?k?) se non letti alla luce del significato che essi hanno nella LXX non verrebbero compresi. La presenza di semitismi, l’uso del verbo essere e costruzioni grammaticali che risentono del sistema della lingua ebraica vanno assolutamente tenuti conto ai fini di una migliore comprensione dei Testi.
Consideriamo inoltre quante citazioni implicite (citazioni intere senza essere specificata l’indicazione del Testo) ci sono della Bibbia ebraica nel NT. Solo nel Vangelo secondo Matteo sono circa 160 e, nello stesso Vangelo, circa 38 sono le citazioni esplicite. Pensiamo al caso del libro dell’Apocalisse che non cita esplicitamente la Bibbia ebraica, ma è quasi un’intera allusione ai Testi veterotestamentari.
Si menzioni ancora l’utilizzo del verbo “dire” (leg?) e a quante volte è assimilato all’‘autorità’ di chi parla: “come dice la Scrittura”, o “Mosè”, o la “Legge”, o “Davide” (a volte non sono soggetti espliciti, ma sottintesi). Lo stesso si dica del verbo “scrivere” (graf?): espresso al tempo perfetto “è stato scritto” (gegraptai) significa un’azione compiuta nel passato i cui effetti continuano nel presente.
Con questa espressione “è stato scritto” si allude appunto all’autorevolezza della Sacra Scrittura e infatti Gesù nell’episodio delle ‘tentazioni’ introduce la citazione biblica proprio con le parole “è stato scritto” / “sta scritto”. La medesima espressione “sta scritto” / “perché sta scritto” solo nella lettera ai Romani ricorre 17 volte.
Gesù ha affermato che “la Scrittura non può essere abolita” (Gv 10,35). San Paolo sempre si ispira ai Testi veterotestamentari per istruire, ma anche per guidare spiritualmente i credenti: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e dell’incoraggiamento che ci vengono dalle Scritture possediamo la speranza” (Rm 15,4). Ancora: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia” (2Tm 3,16-17).
3- Non tutto può essere scritto
Sia il cristianesimo che l’ebraismo condividono il fatto “che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti” (10).
Intorno alla fine del I secolo il canone della Bibbia ebraica era già completo: Legge, Profeti e Scritti. Tuttavia, il solo testo scritto “non può essere sufficiente a esprimere tutta la ricchezza di una tradizione” (9), per cui in ambito farisaico e rabbinico è sorta la produzione di una tradizione scritta costituita dalla Misnah (III secolo), dalla Tosefta (‘supplemento’), dal Talmud (Babilonese, Palestinese) e dall’attività interpretativa sempre in produzione.
La Misnah, la Tosefta e il Talmud sono autorevoli, ma non tali da ‘sporcare le mani’ (cioè non sono sacri), pertanto non vengono letti solennemente nelle liturgie sinagogali. Ma per apprezzare l’importanza che riveste il concetto di ‘tradizione’ anche all’interno dell’Ebraismo citiamo la frase: “Al Sinai, Mosè ricevette la Legge orale e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero ai membri della Grande Sinagoga” (Mishna, Aboth 1,1).
Pensiamo al percorso che è stato vissuto all’interno del cristianesimo primitivo. Alla Bibbia ebraica che già era accolta, si è cominciato ad affiancare “l’insegnamento degli Apostoli” (At 2,42) costituito dall’insieme delle parole dette da Gesù e dalle opere da Lui compiute, nonché dal messaggio evangelico fondato sulla Risurrezione di Gesù e le conseguenti elaborazioni dottrinali proferite durante la missione evangelizzatrice compiuta dai discepoli. Così alla Bibbia ebraica si è affiancato il NT.
Lo ripetiamo. Sia il cristianesimo che il giudaismo condividono il fatto “che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti” (10). Scrive l’evangelista Giovanni: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,25).
Del resto Gesù stesso ha detto che per una maggiore e migliore comprensione del Sua missione Egli avrebbe donato lo Spirito Santo per guidare i credenti “alla verità tutta intera” (Gv 16,13). In virtù di questo la Dei Verbum afferma che la Tradizione “nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture (8). Quindi “l’una e l’altra – la Scrittura e la Tradizione – devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza” (9).
Quindi ebraismo e cristianesimo si incontrano nel comune interesse per le Scritture d’Israele anche se tuttavia non coincide la considerazione che di esse ha la rispettiva ‘tradizione’. Ad esempio, in ambito ebraico il primo posto è riservato alla Torah, mentre per il cristianesimo -soprattutto per il NT- l’attenzione è rivolta alla raccolta profetica perché in essa vi vede annunciato Cristo.
E poi chiaramente, la realizzazione dei messaggi profetici relativamente all’ebraismo rimanda in prospettiva futura, mentre per il cristianesimo è già iniziata con Gesù. Di Gesù parlano le Scritture del popolo ebraico ed alla luce di Lui vanno lette, interpretate e vissute.
4- L’influenza dei metodi esegetici dell’ebraismo sul NT
Consideriamo l’influenza che hanno esercitato nel NT i metodi esegetici rabbinici. Il più antico di essi, basato sui testi della Bibbia ebraica, riguarda una serie di sette « regole » (middoth) attribuite tradizionalmente a Rabbì Hillel (morto nel 10 d.C.) che “rappresentano certamente una codificazione dei modi contemporanei di argomentare a partire dalla Scrittura” (12), in particolare per dedurne il messaggio teologico o le norme etiche.
Un’altra testimonianza circa i metodi esegetici in uso al tempo di Gesù ci proviene da Giuseppe Flavio il quale fa riferimento all’utilizzo di sostantivi veterotestamentari per “descrivere determinati eventi e mettere in questo modo in luce il loro significato” (12). Ad esempio riferisce il fatto che il ritorno dall’esilio babilonese viene additato con espressioni che rimandano alla liberazione dalla schiavitù egiziana del tempo dell’Esodo (Is 43,16-21), e la restaurazione escatologica di Sion viene descritta come un “nuovo Eden”.
Sempre relativamente al I sec, si possiede anche la testimonianza della ‘scuola’ di Qumran. Circa la forma e il metodo, il NT evidenzia importanti somiglianze con i testi di Qumran soprattutto nel modo di trarre ispirazione dalle Scritture. Per esempio anche qui il modo di introdurre la citazione di un Testo dell’AT è pressoché uguale: “così è scritto”, “come sta scritto”, “conforme a quanto è scritto”.
Del resto la comunità di Qumran con quella del NT si somigliavano nell’interpretazione dei Testi profetici: “entrambe avevano la convinzione che la piena comprensione delle profezie era stata rivelata al loro fondatore e da lui trasmessa, il «Maestro di Giustizia» a Qumran, Gesù per i cristiani” (13). Come è avvenuto per i manoscritti di Qumran, anche “alcuni testi biblici sono utilizzati nel Nuovo Testamento nel loro senso letterale e storico, mentre altri sono applicati, più o meno forzatamente, alla situazione presente” (13).
Ma c’è un’importante differenza: mentre nei testi di Qumran, il “punto di partenza è la Scrittura”, nel NT il “punto di partenza è la venuta di Cristo” (13). Quindi non si tratta di attualizzare il messaggio della Scrittura, ma di “leggere la venuta di Cristo alla luce della Scrittura” (13). La somiglianza sta perciò nell’utilizzo delle tecniche esegetiche che, come in Rm 10,5-13 e in diversi brani della lettera agli Ebrei è evidentissima.
Ritorniamo al discorso che abbiamo poco fa avviato e che ora riprendiamo, ovvero in merito alle tecniche rabbiniche di argomentazione. Sia Gesù nei Suoi discorsi, che Paolo nelle sue Lettere si ispirano alle 7 middot di cui abbiamo detto. In particolare, quelle che si riscontrano con maggiore frequenza sono le prime due e cioè, il qal wa-homer (Mt 6,30; 7,11; Rm 5,15.17) e la gezerah shawah (Mt 12,1-4; Rm 4,1-12).
Più o meno coincidono con l’argomento a fortiori e con l’argomento per analogia. Si riscontra inoltre somiglianza con la tecnica rabbinica del midrash, anche se nello stesso tempo ci si discosta da essa: “nel midrash rabbinico ci sono citazioni di opinioni divergenti provenienti da diverse autorità, così che si ha a che fare con una tecnica di argomentazione, mentre nel Nuovo Testamento è decisiva l’autorità di Gesù” (14).
Anche san Paolo si serve di questi metodi soprattutto per confutare con gli avversari ebrei, sia rimasti tali o convertiti al Vangelo. Di argomentazioni alla maniera rabbinica si viene a conoscenza anche nella lettera agli Efesini e nella lettera agli Ebrei. La lettera di Giuda è quasi tutta redatta con uno stile esegetico simile ai pesharim (spiegazioni) che si leggono nei manoscritti di Qumran.
Un esempio di argomentazione alla maniera rabbinica è il discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,59). Il suo stile presenta molte somiglianze con quello delle omelie sinagogali del I secolo: “spiegazione di un testo del Pentateuco con l’appoggio di un testo dei profeti; ogni espressione del testo viene spiegata; vengono apportati dei leggeri aggiustamenti della forma per adattarli alla nuova interpretazione” (14).
Un’altra tecnica è quella delle allusioni all’AT. Nel NT spesso si fa allusione ad episodi biblici al fine di risaltare il significato di fatti della vita di Gesù. Le narrazioni relative all’infanzia di Gesù riportate dall’evangelista Matteo “possono rivelare il loro pieno significato solo se letti sullo sfondo dei racconti biblici e post-biblici su Mosè” (15).
Il vangelo secondo Luca invece, relativamente ai racconti dell’Infanzia, dimostra di essere più in sintonia con la letteratura extrabiblica come i “Salmi di Salomone” o gli “Inni” di Qumran (cantici di Zaccaria e di Simeone). Vari eventi della vita di Gesù (teofania al battesimo, trasfigurazione, moltiplicazione dei pani, cammino sulle acque) sono riportati con allusioni intenzionali ad episodi veterotestamentari. Lo stesso vale per i discorsi.
A proposito, la parabola che Gesù insegna dei ‘vignaioli omicidi’ (Mt 21,33-43) mostra che gli uditori “erano abituati all’uso di un’immagine biblica come tecnica per esprimere un messaggio o impartire una lezione” (15). Non a caso abbiamo citato il brano di Matteo perché tra i vangeli è quello che evidenzia il più abbondante utilizzo dei metodi esegetici e argomentativi giudaici.
Ugualmente dicasi per altri Testi neotestamentari: “l’uso molto diffuso dello stile di argomentazione rabbinico, specialmente nelle lettere paoline e nell’epistola agli Ebrei, attesta senza ombra di dubbio che il Nuovo Testamento proviene dalla matrice del giudaismo ed è impregnato della mentalità dei commentatori ebrei della Bibbia” (15).
5- Le allegorie
Un altro aspetto comune è la lettura allegorica della Sacra Scrittura nell’ebraismo e nel cristianesimo. In ambito ebraico il riferimento è a Filone (20 a. C – 45 d. C.), un giudeo residente ad Alessandria interessato alla cultura greca. È l’autore di circa 36 opere scritte in greco che sono commenti e riflessioni circa il Pentateuco e raggruppati in tre parti:
1)Questioni e soluzioni;
2)Commentario allegorico;
3)Esposizione della Legge.
In particolare nel Commentario allegorico pratica appunto il ‘metodo allegorico’, metodo che aveva già avviato nell’ambiente culturale giudaico-alessandrino il filosofo esegeta Aristobulo (II sec a. C.). Ispirandosi a lui, Filone applica quanto i greci facevano (in modo particolare Crisippo di Soli, III sec a. C.) e adopera questo metodo per rendere accessibile la Legge ai letterati greci. “Dopo la spiegazione letterale, si deve anche spiegare il significato soggiacente, perché quasi tutti i testi della Legge hanno un valore allegorico” (De Josepho VI, 28).
In questo modo, Filone interpreta le vicende dei personaggi biblici leggendole in modo allegorico e vedendovi il percorso dell’anima verso Dio. Es.: Abramo con le sue peregrinazioni simboleggia l’anima e il percorso che essa fa per raggiungere la condizione di santità tale per incontrare Dio. Non rifiuta l’esegesi letterale, ma la considera il primo passo per poi impostare l’interpretazione allegorica.
Filone è giudeo e rimane tale, ma, grazie all’applicazione del metodo allegorico acquisito dai greci, segna un punto d’incontro tra il mondo biblico e quello greco-ellenistico. Pur avendo incontrato anche rifiuti, il metodo allegorico di Filone d’Alessandria ha avuto un grande seguito in ambito ebraico. Lo stesso dicasi per il cristianesimo perché Origene, nella formulazione del metodo interpretativo basato sul senso letterale e spirituale/allegorico, molto si rifà a Filone d’Alessandria.
Scriveva a proposito: “Noi siamo disposti da parte nostra ad ammettere per quanto riguarda l’insieme della Scrittura divina che essa ha sempre un senso spirituale, ma che non sempre ha un senso letterale perché spesso il senso letterale è impossibile” (De principiis, IV,3,5). L’esigenza di Origene, come quella dei Padri della Chiesa, era quella di istruire i credenti fornendo loro un’attualizzazione del messaggio biblico che così percepivano come più diretto e applicabile al contesto quotidiano.
Utilizzato così, il metodo allegorico addita il legno con cui Mosè rende dolci le acque vedendo in esso il legno della Croce, o il cordoncino di filo scarlatto della meretrice Raab, alludendo con esso al sangue di Cristo. “In ogni pagina dell’AT si trovavano una moltitudine di allusioni dirette e specifiche a Cristo e alla vita cristiana, ma si correva il rischio di staccare ogni dettaglio dal suo contesto e di ridurre a nulla i rapporti tra il testo biblico e la realtà concreta della storia della salvezza” (20).
Allora si è tornati a considerare la lettura letterale che, secondo Tommaso d’Aquino, è il primo passo da compiere per poi arrivare ad argomentare in modo allegorico. Scrive infatti: “L’accezione ovvia dei termini, corrisponde al primo senso che è il senso storico o letterale. Usare invece le cose stesse espresse dalle parole per significare altre cose si chiama senso spirituale, il quale è fondato sopra quello letterale e lo presuppone” (Summa I q. 1, a. 10).
Nel corso della storia del cristianesimo si è andati via via approfondendo il criterio secondo il quale proporre un’adeguata lettura della Bibbia ebraica. Il rischio è stato l’accentuazione dell’una o dell’altra lettura, letterale o allegorica. Si è anche corsi il rischio di veder rinnegato “insieme agli eccessi del metodo allegorico, tutta l’esegesi patristica e l’idea stessa di una lettura cristiana e cristologica dei testi dell’AT” (20). Inaccettabile!
Da qui quindi l’esigenza di riformulare un’interpretazione cristiana ‘equilibrata’ che tenga conto degli studi di chi ci ha preceduto e che sia “rispettosa del senso originale”. Da questo punto di vista la lettura giudaica dell’AT si prefigge come indispensabile perché avvia ad un adeguato percorso di comprensione in quanto “il disegno salvifico di Dio, che culmina in Cristo (cf Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo” (21).
Ritornando alla presentazione del libro da cui siamo partiti, libro definito “un grande dono all’umanità” (S. E. Spreafico, Presidente Commissione episcopale del Dialogo religioso, 18.03.2019), esso si propone anche come uno tra gli strumenti privilegiati per recuperare la lettura giudaica dell’Antico Testamento e … l’amicizia con i “fratelli maggiori” (Papa Giovanni Paolo II).
Tra 50/100 anni i curatori dell’opera La Bibbia dell’amicizia, prof. Giulio Michelini e prof. Marco Cassuto Morselli, saranno studiati come figure note per aver segnato una svolta negli sviluppi del dialogo interreligioso. “Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la Sinagoga è in contraddizione con la sacra Scrittura” (85).
Giuseppina Bruscolotti