di Stefano De Martis
Nella legge di bilancio, i 9 miliardi per il Reddito di cittadinanza ci sono. Non ci sono, invece, i dettagli e i meccanismi di funzionamento, che saranno contenuti in un provvedimento apposito, da approvare separatamente. Intorno a questa misura su cui, stando ai sondaggi, gli elettori italiani si dividono praticamente a metà (con una netta prevalenza di favorevoli al Sud), resta quindi un alone di incertezza. Tanto più che anch’essa è diventata materia di contesa tra M5s – che ne ha fatto da sempre una bandiera politica – e Lega.
Quest’ultima, che al Nord conserva il suo maggior bacino elettorale, cerca di rassicurare i propri sostenitori circa i pericoli di una deriva assistenzialistica del reddito di cittadinanza. Non a caso Salvini, in una nota in cui ha espresso soddisfazione per i risultati ottenuti con il varo della legge di bilancio, ha usato una terminologia diversa da quella cara ai pentastellati, parlando di “reddito di reinserimento al lavoro”. E un sottosegretario leghista con il gusto della provocazione politica, Armando Siri, ha addirittura ipotizzato che il sussidio venga erogato “anziché direttamente ai vari beneficiari, a imprese e aziende che si facciano carico di formarli”.
Al di là delle schermaglie tra i partiti di maggioranza, tuttavia, i distinguo leghisti colgono un’ambiguità di fondo: il Reddito di cittadinanza è una misura per contrastare la povertà o per combattere la disoccupazione? I due obiettivi sono entrambi di fondamentale importanza per il Paese, ma non coincidono.
La mancanza di lavoro è sicuramente una delle cause principali della povertà, ma la povertà è un fenomeno molto più complesso della mancanza di lavoro, come ha spiegato abbondantemente anche l’ultimo rapporto della Caritas italiana. Un conto sono le politiche di contrasto alla povertà, un conto le politiche per l’occupazione, ha sottolineato più volte un super-esperto come Cristiano Gori, responsabile scientifico dell’Alleanza contro la povertà.
Le due cose richiedono strumenti diversi. Confondere i due piani rischia di vanificare l’efficacia degli interventi, con uno spreco di risorse straordinariamente rilevanti e con effetti che, sotto certi aspetti, potrebbero rivelarsi perfino controproducenti.
Se l’obiettivo del reddito di cittadinanza è “abolire la povertà” – per citare l’iperbolica dichiarazione di Luigi Di Maio – che senso ha affidarne la gestione ai Centri per l’impiego? “Il fulcro del reddito di cittadinanza sono i Cpi, i Centri per l’impiego”, ha confermato in un’intervista di pochi giorni fa il tecnico che sta mettendo a punto il provvedimento, Pasquale Tridico, docente di Economia del lavoro all’Università di Roma 3. Nella stessa intervista Tridico ha affermato che i beneficiari saranno “i poveri assoluti, circa 5 milioni, secondo l’Istat”. Si torna al punto di cui sopra.
E sì che i boccheggianti Centri per l’impiego avrebbero veramente bisogno di un rilancio in grande stile, ma per fare finalmente il loro mestiere. Il miliardo di euro stanziato per essi nella legge di bilancio potrebbe rappresentare in questo senso una svolta positiva. Ma su un versante e sull’altro, si tratta comunque di operazioni che non si improvvisano, che richiedono studio e sperimentazione.
Tempi lunghi. Com’è stato per il Rei, il Reddito di inclusione, la prima misura nazionale di contrasto alla povertà, che sta dando dei risultati, anche se molto parziali per oggettivi limiti di risorse. In quel solco, con gli ingenti stanziamenti previsti nella legge di bilancio, il Governo potrebbe ottenere un “risultato storico”, ha osservato ancora Gori in occasione della presentazione del rapporto Caritas. Ma le ragioni di bandiera, c’è da scommetterci, finiranno per prevalere.