Nel momento in cui riapro l’interruttore e parlo ancora di mistagogia, mi vengono in mente quanti gesti nel corso della liturgia eucaristica sono carichi di significato, tesi non solo a spiegare quello che accade in quel momento, ma anche a tracciare le grandi linee della concezione cristiana delle vita facendole emergere dalla celebrazione. Il bacio dell’altare da parte del celebrante. La luce tenue ma vibrante delle candele (le lampadine lasciatele dal rivenditore, please!). La sede del celebrante ben altolevata sull’assemblea che in lui si riconosce. L’ambone separato dalla sede e proteso verso l’assemblea. La croce tracciata, al Vangelo, sulla fronte, sulle labbra, sul cuore. Potrei continuare fino a domattina.
Ma incomparabilmente più intensi e attinenti al mistero che si compie sono quel il pane bianco sulla patena e quel vino rosso nel calice. Sono lì da quando il celebrante ha detto: “Questo è il mio corpo, mangiatelo” e “questo è il mio sangue, bevetelo”, e ha concluso: “Fatelo in mia memoria”.
Siamo al vertice della mistagogia. La simbologia è al suo punto massimo, non invita solo a cogliere nella fede il Mistero nel suo compiersi, ma a entravi dentro, a farsene parte attiva; e lo fa con un invito che la passione di Dio per l’uomo ha trasformato in un comando.
Un comando. Poi però… l’invito/comando è recepito solo a metà. Solo nel pane.
Certo, ormai la gran parte della gente che viene in chiesa sarà sempre più convinta che la comunione eucaristica, parte integrante della messa, non è un lusso per anime belle, ma il cibo per chi cammina (panis angelorum, factus cibus viatorum), e chi cammina, inciampa.
E allora perché ci si nutre solo parzialmente, solo di pane, contro il comando del Signore?
Certo, dal Concilio di Trento all’odierno Catechismo della Chiesa cattolica (al n. 1390) il magistero della Chiesa ha sempre affermato chiaramente che il Signore Gesù è presente sacramentalmente sotto ciascuna specie, sia nel pane che nel vino consacrati, e che il “frutto” di grazia dell’eucaristia è intatto anche quando la si realizza in una sola delle due specie. Appurata questa verità di fondo, l’Ordo generalis del Messale romano oggi in uso (al n° 281) si limita a dire che la santa comunione esprime con maggiore pienezza la sua forma di segno se viene fatta sotto le due specie. Oddio, “maggiore pienezza”: cos’è, una litote, una figura retorica di attenuazione? “Maggiore pienezza” sta per “nella totalità del suo vero significato”? Forse.
Forse occorrerà attendere la terza editio typica del Messale romano, ancora da completare da parte della Cei, per sentirci dire che la comunione sotto ambedue le specie è la norma, e quella solamente sotto la specie del pane l’eccezione: quando, ad esempio, il numero dei comunicandi è eccessivo.
Quod erat in votis.