Quel giorno sul Tabor, Pietro, Giacomo e Giovanni non ‘vedono la luce’, ma capiscono che Cristo è la Luce. La trasfigurazione di Gesù si imprime così fortemente nella loro memoria e nel loro cuore che più tardi Giovanni dirà: “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5), “venne nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,19) e, ormai anziano, scriverà che il volto del Figlio dell’uomo è “come il sole quando splende in tutta la sua forza” (Ap 1,16). Un’esperienza per certi aspetti simile a ciò che avviene quando ci si innamora: l’amato, che prima era uno dei tanti, diventa l’unico, il solo al mondo che interessi. Non si è capaci di pensare ad altro che a lui, tutto il resto si colloca come su uno sfondo neutro. Come la trasfigurazione di Gesù rapisce e assorbe totalmente Pietro, Giacomo e Giovanni, così può avvenire a ogni discepolo al quale Gesù vuole, almeno una volta, rivelarsi come “Luce da Luce, Dio vero da Dio vero”.
Pietro, Giacomo e Giovanni rappresentano infatti profeticamente la Chiesa, Corpo vivo di Cristo. Per questo, quando Dio si manifesta sull’Oreb a Mosè e a Elia non è presente il popolo di Dio, ma ora, sul Tabor, insieme a Gesù sono presenti i tre discepoli, segno della Chiesa, “Donna vestita di sole” (Ap 12,1). Ora, grazie alla Chiesa, nel volto splendente di Cristo c’è il volto di ciascuno di noi, creato a immagine e somiglianza di Dio, perché in ogni uomo Dio ha messo una sorgente di luce, una bellezza nascosta che deve brillare: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone” (Mt 5,16). E io? Se Dio vede in me una luce, non devo anch’io imparare a vedere nel prossimo, nel “nemico”, la presenza di Dio che vuole brillare? Perché nell’altro vedo più facilmente le ombre che la luce? Il Tabor deve trasformare il nostro modo di vedere gli altri. Torniamo al paragore dell’innamorato: quando ci si innamora, l’altro ci appare come in un alone luminoso, bello, senza difetti e, se capita di vedere delle mancanze, si è comunque subito pronti a giustificarle.
Un’altra cosa ci regala questa pagina luminosa di Vangelo, ed è l’esortazione di Dio: “Ascoltatelo!” (Lc 9,35). Il credente è innanzitutto un ascoltatore della Parola, perché, come dice san Paolo, “la fede viene dall’ascolto” (Rm 10,17). Per gli ebrei e per i cristiani, l’ascolto è la prima azione: solo accogliendo la Parola l’uomo diventa credente. Se in riferimento a Dio “in principio era la Parola” (Gv 1,1), possiamo dire che per l’uomo “in principio è l’ascolto”. Perché non dedicare, durante la Quaresima, qualche minuto al giorno alla Parola? Come sarebbe bello poter fermare il tempo e per sempre restare sul monte, avvolti dalla luce, immersi nella pace – come dice Pietro! Ben presto però la liturgia ci farà lasciare il Tabor; allora saremo simili a Mosè che, scendendo dal Sinai, aveva il volto raggiante al punto che tutti vedendolo dicevano: ha parlato con Dio! Il cristiano viene “acceso” da Dio non solo per godere della luce divina ma anche per essere “luce del mondo” (Mt 5,14), per portare Cristo in famiglia, nel luogo di lavoro, tra gli amici…
Dal Tabor, a malincuore, Pietro, Giacomo e Giovanni scendono per seguire con fatica Gesù in cammino verso un altro monte, il Golgota, dove la luce di Cristo torna a nascondersi e, gradualmente, scompare fino al buio totale. Si farà buio su tutta la terra, ed ecco allora il dramma: è difficile ricordare la luce del Tabor quando si soffre, quando ci si chiede: “Perché?” . Lì, sul Calvario, il volto trasfigurato sarà un volto sfigurato, e Colui che è “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sl 45,3) diventerà un uomo misero, senza “apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi”, senza “splendore” (cfr. Is 53). Lì, sul Calvario, sarà pesante sostenere la visione del volto insanguinato, tumefatto; si proverà l’obbrobrio, si fuggirà via o si osserverà tutto da lontano. Eppure, sceso dal Tabor, Gesù “cammina deciso verso Gerusalemme” (Lc 9,51ss). Egli va avanti, e i discepoli – che a stento lo seguono – non contemplano più il suo viso radioso ma vedono solo le sue spalle, come Mosè che può vedere solo le spalle di Dio (Es 33,22-23). Solo dopo un’altra visione di luce, quella del Risorto, essi capiranno la bellezza di quel dorso ferito di Gesù, caricato dal peso di chi è vessato dal peccato, dalla malattia, dallo sfruttamento, dal sopruso, dalla povertà.