‘Scrivi qualcosa sul Sessantotto?’. Me lo chiede don Elio, ma io sono in confusione. Qualche giorno fa è uscito da Piemme un altro libro su quell’anno che per noi ‘matusa’ rimane ‘fatidico’, mentre per quasi tutti gli altri indica un bus che parte da Termini… Cantavamo Dio è morto.
Il Sessantotto dei cattolici: nel suo libro Roberto Beretta a lungo e più volte cita il mio Io, prete padre, sessantottino non pentito, Cittadella editrice, 1999 (ne ho ancora qualche copia).
Nulla di falso, ma non mi ci ritrovo.
Solo schegge del mio pensiero. ‘Pensiero’? Forse solo un coacervo di intuizioni, tipiche di chi una certa ventata culturale l’ha vissuta sperando di esserne travolto per identificarsi nella situazione concreta di poveri concreti, più che dedicarsi a distillare la quintessenza della portanza ideale e semantica del concetto di povertà. La qualità della presenza cattolica nel cuore della contestazione giovanile degli anni ’60 è tutta in questa domanda: la ‘liberazione dei poveri’ che Cristo s’è data come compito quando a Nazareth, in sinagoga, gli fu porto il rotolo di Isaia, e lui lesse, e chiuse il libro, e tutti lo fissavano in silenzio, e lui disse cose strabilianti proprio in tema ‘i liberazione’ ebbene, quella liberazione ha anche una dimensione sociopolitica?
Oppure ha solamente un dimensione sociopolitica, come deragliando sostenne una fetta dei teologi della liberazione?
Oppure quella dimensione le è del tutto estranea, come all’indomani del Concilio ringhiò Hylarius, pseudonimo del mio antico docente di Esegesi, Spadafora: era coriaceo e aggressivo come un cinghiale selvaggio, mons. Francesco, e dal naso gli uscivano peli come pali; ma nelle sue mani, come la panna nelle mani del pasticcere, le Beatitudini, più che spiritualizzarsi, si liofilizzavano.
Ovviamente ‘anche’ è la risposta giusta. Ma per esprimere la necessità assoluta di quell”anche’ non c’era bisogno di cantare ‘Dio è morto’, canzone peraltro bellissima; no, bastava recuperare tutte le implicazioni di quel ‘E sempre sia lodato // il nostro Buon Gesù // sacramentato’ che don Puglisi cantava mentre attraversava, in processione con i suoi, le strade di Brancaccio; al prete martire bastava la strofetta con quell’orribile neologismo (‘sacramentato’: il termine più sintetico e meno felice del lessico eucaristico) per motivarsi a fondo nella liberazione sociopolitica.
E denunciare dall’altare, con la tecnica comunicativa più antica del mondo (soggetto + predicato + complemento), quella mafia che in Sicilia tanti preti e vescovi e cardinali avevano ignorato o addirittura aiutato a mimetizzarsi da ‘sostegno dei poveri’.
Implacabile e quotidiana. Centrata su Cristo, senza pleonasmi. In tv, l’altro ieri, ne ha dato un’ottima lettura Luca Zingaretti. ‘Gesù sacramentato’. A quelli che gli spararono in faccia, don Pino disse: ‘Vi aspettavo’. Giusto. Normale.
Gli assassini parevano operai dell’Enel che andassero a riparare l’ennesimo lampione rotto dai suoi ragazzi.