Quando mi bocciarono

Abatjour

È un malvezzo di noi piccoli intellettuali di provincia (uno dei tanti!), quello di quasi… ostentare le difficoltà che incontriamo con la tecnica: contachilometri, palette da policeman, tenuta dei documenti: ce la caviamo male, ma è come se questo fosse il naturale portato del nostro blasone di uomini di lettere. Qualche volta però ci si batte i naso. Come accadde a me, tanti anni fa, tra gli sghignazzi di gente che oggi ha 60 anni e giù di lì. Dovevo prendere la patente di guida. Ero già proprietario di una Fiat 500 azzurra (PG 58388): chi aveva prenotato l’esame, anche solo privatamente, poteva guidare a patto che avesse vicino a sé un patentato. Feci le carte, percorsi qualche migliaio di km con o senza patentato accanto, poi, davanti alla vecchia stazione ferroviaria, vidi un piccola folla. “Che c’è?”. “C’è l’esame per la patente”: Tiro fuori il foglio rosa… perbacco, è l’ultimo giorno utile per dare l’esame. Allora mi metto in fila. Ultimo. Verso le 2 del pomeriggio finalmente sono faccia a faccia con l’Ingegnere. “E questo segnale stradale cosa vuol dire?”. Mi ha messo davanti un cerchio tutto bianco, orlato di rosso: più tardi avrei saputo che voleva dire divieto d’accesso. “Che vuol dire?”; l’Ingegnere si passa la mano sulle palpebre che vorrebbero chiudersi. Io vorrei dirgli: “Beh… io non l’ho mai visto”, ma non si può. Allora azzardo: “Senso obbligatorio”. L’Ingegnere ha un sussulto: “Mi scusi, ma lei lo conosce l’italiano?”. “Orco! Lo insegno anche!!”. “E quindi è convinto che quando vedono quel segnale in cima a una strada, tutti debbono infilarcisi dentro”. “Sì”, candido. Altrettanto candido lui: “No!”. Io, quasi aprendo una trattativa: “Beh… qualcuno ogni tanto”. Lui, duro: “No! Nessuno”. Spallucce: “Allora ci vediamo il prossimo mese”. Lui “Se vuole!”. A casa il babbo scrollava la testa e rimpiangeva i soldi che aveva speso per farmi studiare. Aria di festa, invece, la sera, nella sede del “mio” Movimento studenti eugubino. Coriandoli, tricche-tracche, castagnole, nacchere. I miei ragazzi mi chiamavano “il Cris” (da “Crisostomo”, bocca d’oro), alludendo alla mia facilità di eloquio. Quella sera, seduti sui talloni, ballarono il casatchok. Qualche ragazza accennò alla danza del ventre. Tutti felici che finalmente avessi trovato l’occasione buona per stare zitto.

AUTORE: A cura di Angelo M. Fanucci