Le nostre piazze umbre, in questo sbocciare della primavera, si riempiono di gioventù fresca e birichina che per un giorno si è allontanata dalle aule scolastiche e si gode una gita. Intere scolaresche guidate da pazienti, spesso accondiscendenti e sempre comunque rassegnati, professori e professoresse guardano i monumenti, si abbuffano nei bar e tirano anche qualche calcio alla palla che i maschietti si sono portati dietro prudentemente. E’ una simpatica ventata di vitalità e di freschezza che non fa male e viene a cancellare per qualche ora altre invasioni di piazza che stanno a indicare tutt’altra musica e suscitano severi pensieri. Sono gli scioperanti, i manifestanti, i girotondisti che contestano il governo, le leggi o proposte di legge, la guerra, il terrorismo. Motivi e materie le più disparate, da quelle veramente serie che contemporaneamente condannano terrorismo e guerra (guerra e terrorismo) a quelle più opinabili e che potrebbero essere trattate più efficacemente attorno ad un tavolo di buona volontà, sperando che ci sia. Vi sono poi le piazze mediatiche dove si litiga abbondantemente su tutto con collegamenti che fanno capire che il conflitto è ben oltre gli studi televisivi. Abbiamo visto anche le piazze francesi con uomini e donne di sinistra che piangevano per la sconfitta lacrime amare. Una sconfitta bruciante per l’avanzamento di Le Pen, considerato “anti” tutto quello che pretende di rappresentare nel mondo la Francia laica, quella della “liberté egalité fraternité”. Non allarghiamo lo zoom, perché potrebbero entrare nell’obbiettivo altri scenari, dalla Palestina all’Argentina, dall’ Iraq all’Africa. Un poeta saggio e inquieto e si domandava tremila anni fa in un salmo “Perché tumultuano i popoli? (Quare tumultuantur gentes?). Ma che vuole la gente, perché è così inquieta? Ogni persona, uomo e donna, e ogni tempo ha una sua risposta. Senza essere poeti, né saggi, si può tentare di rispondere che per il nostro tempo, forse, c’è in gioco una grande paura. Non più, o almeno non solo, quella che aveva in passato una nazione contro un’altra che procurava guerre e disordini, ma più in generale la paura di un futuro di cui non si scorgono le caratteristiche. Un futuro incerto che si apre nel processo di una globalizzazione indistinta, di un pluralismo di soggetti, di interessi, di gruppi sociali, di valori, di religioni di cui non si riesce a prevedere le mosse, a ponderare il peso, intuire le intenzioni. Un futuro che non si lascia immaginare. Il disagio dei giovani, la rassegnazione degli anziani e la rabbia di chi si vede sfuggire la realizzazione dei propri progetti e un senso generale di impotenza. E qui Giovanni Paolo II ha colto bene lo “spirito del tempo” quando ha detto ai cristiani di spingersi nel mare aperto, di non avere paura (Duc in altum!). Proprio perché ha capito che gli esseri umani hanno paura di ciò che è incerto, che non si può dominare e neppure prevedere. Come non avere paura, del resto, quando si è in alto mare e non si intravede il porto e neppure la riva? Chi pensa di ritornare indietro ad un irripetibile e impossibile passato sfugge a questa sfida e rifiuta l’invito alla speranza. Nelle piazze si pensa di potersi ritrovare insieme per farsi coraggio a vicenda. Ma il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare a meno che non l’attinga da una forte fede, che per noi è unicamente quella del Risorto: non abbiate paura, il futuro sono Io.
Quando le piazze si animano
AUTORE:
Elio Bromuri