Può capitare di snobbare per tutta la vita il dono più grande che Dio t’ha fatto? A me è capitato. Ipersensibile come sono al fascino delle parole, non mi sono reso conto che, per quelli della mia risma, il dono più grande che Dio poteva farci era proprio la sua Parola. Non essendomene reso conto, l’ho snobbata, quella Parola santissima, lungo tutta la mia vita di cristiano e di prete. Non che l’abbia ignorata, no: sarebbe stato impossibile, talmente costante e talmente ficcante è il pressing con il quale la Chiesa invia la Scrittura ai timpani dei suoi christifideles laici e agli organi di fonazione dei suoi preti. Ma nel senso che, nella predicazione, l’ho usata, quella Parola, come trampolino di lancio delle mie personali elucubrazioni.Frettolosamente. No, non le ho mancato di rispetto, come quel sapido confratello che pensava di dover commentare nell’omelia domenicale un certo brano di Vangelo, e all’ultimo momento si accorse di aver preparato il brano previsto per la domenica successiva, e vinse il panico salvandosi in corner: ‘Cari fedeli, sul Vangelo di oggi non c’è niente de bono, per cui…’. No, non fino a questo punto, ma certo che la Parola mi chiedeva di essere capita a ubbidita; ‘capìta’ liberandola dall’involucro della cultura nella quale si è espressa, ‘ubbidita’ sia nelle cose da dire che nella priorità tra le cose dette; e io invece di capirla la manipolavo, invece di ubbidirla me ne servivo. ‘Io’? Forse dovevi dire ‘noi’, talmente diffuso tra i miei confratelli mi sembra il malvezzo di usare la Parola come trampolino di lancio delle proprie elucubrazioni. D’altronde abbiamo dei precedenti, anche molto illustri. Ho svegliato all’improvviso dal suo sonno pluridecennale, tirandolo giù dall’ultimo scaffale della mia libreria, il tomus quartus Summae Theologiae Sancti Thomae Aquinatis, edita apud Bloud et Barral, bibliopolas, a.d. 1856. L’acquistai a Roma, da un vecchio libraio di via Magna Grecia quando, con la sua editio decima quinta, compiva 102 anni e io 20. Ebbene il grandioso pensiero teologico di san Tommaso prevede l’uso della Bibbia come controprova di argomentazioni filosofiche attinte altrove. La Secunda secundae,’nell’articulus I della quaestio XVII (Utrum spes sit virtus) muove da una doppia citazione di Agostino (la prima dal De libero arbitrio, l’altra dal Commentarium al Salmo 117) e da una terza citazione attinta alle proposizioni 17 e 18 del VII libro della Fisica di Aristotele per arrivare ad una conclusio nella quale hanno spazio ben quattro citazioni dell’Etica nicomachea del grande Stagirita, ma nemmeno uno scampoletto di Sacra Scrittura. Nessun teologo oggi (tanto meno l’ha fatto Benedetto XVI nella sua enciclica) si azzarderebbe a parlare della speranza cristiana con un’attrezzatura così impropria. Ma san Tommaso aveva una scusante fortissima: al suo tempo era molto diffusa la sapientia Libri, mentre non aveva ancora decollato la scientia Libri. La sapida scientia aveva sbarrato le porte alla scientia, l’interiorizzazione che nutre era andata a scapito del rigoroso approfondimento scientifico.Allora. Ma oggi no. Per cui’
Può capitare? Poteva
ABATJOUR
AUTORE:
Angelo M.Fanucci