di Angelo M. Fanucci
Sulla orme di Zincone, voglio andare vedere. 30 giugno 1970. A bordo della mia Citroen Dyane color giallo cacca di bambino, raggiungo per tempo Fermo. In piazza, alzo gli occhi e leggo “Piazza Temistocle Calzecchi Onesti”: oh, sì, il nonno della grande Rosina Calzecchi Onesti, commentatrice entusiasta del mio Ubaldo Baldassini novecento anni dopo (1985), autentica fan della Capodarco, oltre che braccio destro del card. Martini per la pastorale culturale della diocesi di Milano.
Fermo: Capodacqua è nelle vicinanze. “Sapreste indicarmi dov’è la Comunità di Capodacqua?”. “Capodacqua?! – l’omino si tormenta la barbicchia. – Ma no! Chissu cerca la Comunità de Capodarco, dove lu figghiu de lu bidellu ha r’dunato li spàstici!”. Il padre di don Franco, ’l sor Giggi, era uno dei bidelli delle famose Scuole tecniche Montani.
Scendo verso Porto San Giorgio, parcheggio a fianco all’antica villa Piccolomini, sulla cui facciata brillano le spie, quei rettangoli di vetro inseriti nella muratura: quando si spezzeranno, vorrà dire che la villa… si sarà “mossa”.
Accanto alla grande porta d’ingresso un cartellocanta: “Questa è la casa di tutti, entrate pure!”. E al suo stipite, toccandolo con la sommità della schiena e la sporgenza delle natiche, un distrofico, pancia molto in fuori per ragioni di equilibrio statico.
È Michele Rizzi, saprò che è un’autentica colonna della Comunità. Per adesso è solo un maleducato. “Mi scusi, potrebbe guidarmi in una visita alla Comunità?”. Appena uno sguardo, un ghigno di disgusto sulle labbra: “Hai piedi buoni, cammina! Se qualcosa di buono lo trovi, ne riparliamo. Altrimenti… amici come prima”. Amici o nemici, visto che non hai gradito il mio clergyman impeccabile, collarino romano incluso. “Cammina!”. Parlo con Alfredo Rasconi, genovese che vede tutto facile a onta della malattia che gli lascia libera solo la lingua. Maurizio Palazzetti dall’alto della sua carrozzina mi spiega come si sistemano nel grande letto due invalidi per volta: semplice, basta mettersi in senso inverso, e uno toglie i calzoni all’altro.
M’invitano a pranzo. Allungo il mio piatto in plastica flessibile prima a Ida che ha appena scodellato dal pentolone una colata lavica di spaghetti fumanti, poi al ragazzone che ha in mano il padellozzo con il condimento. All’ingresso della villa c’è uno scalone che sale su tutt’e quattro i lati: ogni gradino può comodamente ospitare quattro-sei mangianti, seduti, con il piatto sulle ginocchia. Che fame!
E riprendo a camminare, a chiedere, a osservare. Fino a sera. Sempre più disorientato.