Al commento della parabola “del Figlio prodigo”, o meglio, “del Padre misericordioso” è stato dedicato spazio in queste stesse pagine in occasione della IV domenica della passata Quaresima (La Voce n.11, 19 marzo 2004). In quel lezionario venivano peraltro omesse le parabole che l’accompagnano, che invece oggi sono proclamate nelle chiese: quelle della pecora e della moneta perdute e poi ritrovate. Ci concentriamo quindi su queste due, ma possiamo anche cogliere l’occasione per trattare brevemente di quel genere letterario particolare che è la parabola. Per chi volesse approfondire, raccomando tre titoli.
Il lavoro più recente è quello del gesuita Roland Meynet, docente di Nuovo Testamento alla Gregoriana a Roma, che ha pubblicato nel 2000 il volume Vedi questa donna? Saggio sulla comunicazione per mezzo delle parabole. Un “classico” rimane invece il testo del Card. Martini: Perché Gesù parlava in parabole? Bellissimo e fondamentale, ma meno divulgativo, il libro di un altro vescovo, Vittorio Fusco, Oltre la parabola. Partiamo da un rischio: quello che si corre nel leggere una parabola prendendo tutto “alla lettera”, come se ci fosse un’esatta corrispondenza tra ogni singolo dettaglio del racconto e un significato “nascosto”, da ricercare. Si credeva questo proprio nell’interpretazione dei Padri della Chiesa, quando la parabola è stata confusa con l’allegoria, facendo dire “ad un testo cose magari vere per altra via, cose che la Bibbia dice altrove, ma che quel testo non dice, a scapito delle cose che il testo effettivamente dice” (Fusco).
A questo punto la parabola non ha più una sua logica interna da capire: diventa semplicemente qualcosa che ho già sentito e che non mi tocca più, perché già so “come va a finire”. Invece lo scopo della parabola è quello di coinvolgere il lettore/ascoltatore, che così verrà portato ad identificarsi con qualcuno o con una situazione nel racconto. Un esempio efficace è quello della parabola raccontata dal profeta di corte Natan al suo re David (2 Sam 12,1ss.). Quest’ultimo ha appena commesso un terribile peccato, facendo uccidere il suo rivale Uria. Natan non può tacere, e trova il modo di raccontare una storia al suo re, il quale alla fine è portato – quasi senza accorgersene – ad autoaccusarsi. La parabola lascia sempre aperto uno spazio al lettore/ascoltatore, non usa violenza, non impone una “morale”, ma chiede che si compia un proprio percorso, che porta inevitabilmente a doversi scoprire, a formulare un giudizio su quanto narrato nella parabola (Chi di voi? Cosa farà quel tale?): giudizio che sarà poi, in ultima analisi, un giudizio sulla propria vita.
Per questo è un vero esempio di comunicazione che dovremmo seguire nelle nostre complicate relazioni. Per leggere le due brevi parabole di oggi dobbiamo sottolinearne il Leitmotiv, la gioia, e solo così le potremo capire: “C’è più gioia in cielo”. Anche se l’occasione delle parabole è quella dell’accoglienza dei peccatori (Lc 15,1: “I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro'”), a dire il vero le due parabole funzionano a prescindere da questa premessa di tipo “morale”. Perché in realtà non si dice il motivo per il quale la pecora e la moneta sono state perdute. Di chi è la responsabilità? Sembrerebbe quasi che sia, rispettivamente, del proprietario e della donna, che – così il vangelo – quella pecora e quella moneta l’hanno proprio smarrita (15,1.8), Ma allora, se dovessimo concentrarci su questi dettagli, qualcosa stonerebbe nel racconto, soprattutto nelle sue conclusioni di tipo morale: ma non è colpa del peccatore, forse, l’essersi allontanato, cioè, perduto? Non è lo stesso “caso” del figlio prodigo? No. Qui subentra il colpo di scena, che permette di ragionare in altro modo all’interno della parabola. Il proprietario e la donna (Dio?) si considerano come se fossero essi stessi responsabili della perdita avuta.
Il messaggio che emerge alla fine, mi pare, è che Dio ha cura dei peccatori fino ad andare egli stesso a cercarli; si occupa dei suoi figli, di tutti, anche e soprattutto di quelli “ovunque dispersi” (liturgia della Messa). A queste stesse conclusioni deve essere arrivato il Manzoni, che ci ha lasciato quelle formidabili parole con le quali Federigo si rimprovera per non essere andato a cercare l’Innominato: “Da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io. […] Voi, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare. […] Lasciamo le novantanove pecorelle, sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita” (I Promessi Sposi, XXIII). Infine, la gioia del ritrovamento della pecora e della moneta è profezia di un ritrovamento più grande e più bello. Quando ci rivedremo con i nostri cari, allora saranno contenti di ritrovarci e di poterci abbracciare e, nella comunione con Dio, sarà grande gioia in cielo, anche per noi.