di Jean-Dominique Durand*
La Francia dei “gilets jaunes”. Poi Algeria, Cile, Hong Kong, Libano, Bolivia, Catalogna, Romania, Regno Unito… Le strade nel mondo urlano contro i governi, contro i poteri politici, i popoli entrano in ebollizione. Il mondo globale non è soltanto il mondo degli scambi mercantili, della finanza o del turismo. La contestazione diventa globale.
Non c’è un’unica regia, i temi per i quali ci si solleva sono differenti. Non esiste un “capo” che organizza tutto. Ognuno ha la sua propria storia e vicenda locale; poi una scintilla fa divampare l’incendio. Ma si possono rintracciare almeno quattro elementi di contatto.
Il primo, forse più evidente, è il ruolo delle reti sociali, cioè di internet, come arma di mobilitazione di massa. I manifestanti non hanno bisogno né di un capo riconosciuto da tutti, né di un’organizzazione strutturata. Basta lanciare anche anonimamente una protesta, un appello per scendere in strada e proporre un luogo centrale, in genere ben conosciuto da tutti, nella capitale. Poi il fuoco si sparge, esce dalla città principale, si diffonde in tutto il Paese, a volte nei più piccoli villaggi o città di provincia.
Un secondo punto comune è l’espressione di preoccupazioni sociali, il timore che la globalizzazione e le nuove tecnologie creino società a doppia velocità, che si lascino per strada i più poveri, le persone fragili come anziani, disabili o semplicemente abitanti di periferie, e – novità – le classi medie. Sembra avvertirsi l’aumento delle disuguaglianze di fronte a un liberalismo mondiale senza viso né anima.
Un terzo elemento comune è la sfiducia nei confrontidella classe dirigente, dei poteri politici, in realtà di ogni potere: i dirigenti d’impresa, i politici (che siano sindaci, ministri o parlamentari), i giornalisti, gli intellettuali, i sindacalisti. Le rivolte sono dirette contro tutte le élite. È la contestazione del cosidetto “sistema”, parola che identifica un nemico, senza definizione puntuale. Si tratta di cacciare i dirigenti, senza fare distinzioni, senza sapere chi potrebbe sostituirli né preparare una nuova, competente classe dirigente.
Un quarto punto riguarda il fatto che le manifestazioni succedono ad altre manifestazioni anche quando il governo ha ceduto di fronte alle rivendicazioni, anche quando si cerca di correggere la rotta. I governi possono abbandonare i progetti contestati, fino a dare le proprie dimissioni, ma talvolta le proteste proseguono per settimane, ogni giorno, come un movimento perpetuo capace di durare all’infinito, persino nel momento in cui le ragioni iniziali del malcontento sono venute meno. In vari casi si verifica che i manifestanti non propongano nulla di concreto, non avanzino richieste alternative. E anche quando si invocano nuove elezioni, i candidati potenziali sono rapidamente marginalizzati.
Queste contemporanee rivolte in tanti Paesi rivelano un mondo sempre più fratturato e complesso. Dopo la caduta dei regimi comunisti in Europa, la democrazia rappresentativa sembrava assicurare un avvenire democratico in tutto il mondo, con un mercato equilibrato. Ma la storia, come diceva il filosofo Jacques Maritain, è sempre ambivalente e sorprendente.
Il liberalismo è diventato finanziario e globale, la democrazia è sempre più populista, il nazionalismo si diffonde, le classi dirigenti sono contestate anche grazie alle reti sociali e al diffondersi di fake news. Però, paradossalmente, i manifestanti chiedono ovunque più democrazia, più rispetto e dignità, più giustizia sociale, più onestà nella gestione degli affari pubblici.
In fin dei conti, se questo mondo globale appare minacciato dalle fratture che lo attraversano, resta la speranza che diventi migliore.
*Professore di Storia contemporanea a Lione