Il prossimo Consiglio europeo del 28 e 29 giugno segnerà – anche alla luce delle elezioni greche – un’altra tappa nel cammino dell’Ue. I 27 leader torneranno a confrontarsi sulle modalità per contrastare la crisi e per favorire la crescita. Ne parliamo con Edoardo Ongaro, professore ordinario di Gestione internazionale dei servizi pubblici alla Northumbria University di Newcastle (Inghilterra), e visiting professor presso l’Università Bocconi di Milano.
Qual è il suo giudizio sulle “strategie di uscita” dalla crisi finora elaborate in sede comunitaria?
“Poco lungimiranti. Intendiamoci, governare e amministrare è un’arte molto difficile, e lo è ancora di più in un contesto politico-istituzionale multi-livello come quello europeo. Ma, guardando a tutta l’Europa, mi domando se le ‘agenzie formative’ – in primis i partiti, ma anche le istituzioni, le università… – abbiano operato adeguatamente nel formare e selezionare una classe politica di alto livello”.
L’opinione pubblica intuisce che esistono differenti posizioni tra i principali leader nazionali. È possibile delineare uno schema dei modelli in campo?
“Vi sono almeno quattro modelli in campo. Due sono quelli più dibattuti: chiamiamoli modello dell’austerità (primo: fare ordine in ciascun Paese) e modello della crescita attraverso nuovi strumenti (gli eurobond, o la condivisione di una quota di debito pubblico). Gli altri due si possono rinvenire nella riflessione accademica. Il terzo è quello che muove dall’assunto che il modello di sviluppo socio-economico europeo non sia più sostenibile a causa delle pressioni competitive innescate dalla globalizzazione. La via da percorrere, a partire dai singoli Stati, è quella di ispirarsi agli Usa. Il quarto è quello che ritiene che il modello sociale europeo (economia sociale di mercato e istituzioni del welfare) sia costitutivo e identitario dell’Ue, sul piano culturale, anche se non inquadrato nei Trattati. Secondo questo modello, una governance federale è indispensabile, ma al contempo l’Europa unita non sopravviverà se non verranno radicalmente riformati i sistemi di welfare in modo da garantirne l’equilibrio e il rilancio”.
Esiste una via d’uscita – sostenuta a livello politico oppure in ambienti accademici – che si può ritenere più vicina a un modello “federalista” di integrazione europea?
“Penso che il quarto modello sia più realistico di quanto si possa pensare. In un certo senso, per attuarlo si tratta ‘soltanto’ di alzare la posta in gioco: più federalismo, e rapidamente, come chiedono i fautori della crescita attraverso nuovi strumenti europei, in cambio di riforme che mirino a rinnovare il modello sociale europeo. Riforme che rendono ben più dell’austerità nel garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema. Ma gli attori in campo sapranno essere così lungimiranti da giocare al rialzo invece che al ribasso? Peraltro, abbiamo ben visto gli scarsi risultati prodotti finora dal gioco al ribasso. Un buon passo intermedio è quello recentemente suggerito da Martin Wolf: una unione delle garanzie (in caso di crisi gravi, la garanzia deve essere fornita collettivamente e in modo quasi automatico al Paese in difficoltà) accompagnata da una unione degli aggiustamenti: non solo i Paesi in difficoltà, ma anche quelli in crescita devono aggiustare il proprio tasso di inflazione e spesa”.
Come rispondere ai problemi finanziari, a quelli dell’economia “reale”, alla mancanza di lavoro?
“Introdurre certi tasselli in modo appropriato può aiutare – ad esempio intervenire nei salvataggi bancari con una logica federale, direttamente nei capitali delle banche da parte delle istituzioni europee -, purché siano inseriti in una visione di lungo termine. Altrimenti le opinioni pubbliche europee non si mobiliteranno e vorranno provare altre soluzioni, nazionali o anche regionali. Penso che ne resterebbero deluse, ma in alternativa deve essere offerta una più lungimirante visione di Europa”.