Aspirare a migliorare la propria condizione sociale ed economica non è un male, è uno stimolo naturale all’agire di ogni uomo, specie quando dietro questa sana ambizione c’è la volontà di rendersi utili alla famiglia e alla società. Si tratta di gente capace e competente, mossa dalla consapevolezza di avere qualità e carismi da far fruttificare e da mettere a servizio degli altri. È condannabile invece il carrierismo, l’arrivismo di chi vuole raggiungere posti di comando, sgomitando e sfruttando amicizie e appoggi politici ad ogni costo, anche con la corruzione e le tangenti. In questo caso c’è chi copre la propria incompetenza con le spinte e le raccomandazioni. In questo caso si tratta di soggetti pericolosi dai quali bisogna guardarsi.
Quella del potere è una tentazione sottile e devastante; Gesù l’aveva respinta decisamente nel monte del deserto (Mt 4,8-10). Oggi egli detta le regole per un sano esercizio delle nostre capacità e competenze. Si rende conto realisticamente che la società e la cultura di allora e di oggi si muovono in tutt’altra direzione. Non è la prima, né l’ultima volta che il vangelo contesta atteggiamenti umani disordinati ed egoistici, indicando la retta via dell’equilibrio morale. Siamo ancora sulla strada che sale dalla Galilea a Gerusalemme, Gesù è in viaggio verso la sua Pasqua di morte e risurrezione. Ne ha appena parlato per via in termini espliciti nelle terza predizione della Passione che precede il nostro racconto, specificando che “il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (10,33s).
Suona perciò tanto più stonata e fuori luogo la richiesta dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di aver un posto privilegiato accanto a Gesù nella sua futura gloria. Matteo ci dice che la richiesta dei due fu raccomandata personalmente dalla loro madre, Salome, affezionata seguace di Gesù e dedita al suo servizio (Mt 20,20). Si ha l’impressione che la petizione sia stata concordata in famiglia. Ciò metteva in serio imbarazzo Gesù. La domanda poggiava forse sul fatto che Gesù, parlando dalla sua passione e risurrezione, indicava se stesso con l’appellativo misterioso di “Figlio dell’uomo”. La figura richiamava una famosa pagina del profeta Daniele, utilizzata anche da Cristo come profezia (14,62). Essa descriveva l’intronizzazione divina di questo misterioso personaggio messianico così: “Ecco venire sulle nubi del cielo uno simile a Figlio d’uomo. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano. Il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,13s).
Gesù stesso aveva garantito agli apostoli: “Voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele” (Mt 19,28). Ce n’era abbastanza per far passare la Passione, appena descritta con crudi dettagli, in seconda linea, psicologicamente rimossa, perché rifiutata dai discepoli. Non ne volevano sentir parlare. Ciò che interessava loro era la gloria del Figlio dell’uomo e il loro posto sui troni collocati accanto a lui. Ad essi si riferiscono i due fratelli, chiedendo di poter accaparrare i primi due. La risposta di Gesù è deludente: “Non sapete quello che chiedete”. La via per la gloria è cammino di croce, lungo e difficile. I due hanno la capacità e la forza di seguirlo? Gesù usa due immagini consuete che egli stesso applica a se stesso: il calice e il battesimo.
Il calice ha un significato contrastante: indica il dolore e la morte (Sal 75,9), ma anche la salvezza e la gioia (116,13). Gesù lo usa qui e altrove come simbolo della sua morte violenta (14,36). Il battesimo ha qui il significato etimologico di “immersione” nel dolore e nella morte (Sal 69,2s). Sarà il battesimo di sangue dei martiri cristiani. I due fratelli, con un po’ di incoscienza giovanile, si dicono pronti ad affrontare i pericoli descritti. Ma Gesù si rifiuta di garantire loro in anticipo i posti richiesti. Nonostante questo rifiuto, gli altri dieci insorgono e protestano contro i due fratelli per il loro tentativo di sorpasso. Giocano ancora ambizione, gelosia, emulazione egoista. Gesù li convoca e tratteggia loro un tipo di società totalmente diversa da quella che conoscono. Egli disegna due quadri in parallelismo antitetico di grande efficacia: da una parte c’è la comunità politica in vigore, dall’altra la nuova società dei credenti, assolutamente agli antipodi. La prima è caratterizzata dal dominio assoluto e dall’oppressione, cioè dall’abuso di potere, dallo sfruttamento, dall’ingiustizia. La seconda, fondata da Gesù, deve essere una vera comunità di amore, dove non ci sono padroni, ma servi; dove nessuno si deve sentire sfruttato o oppresso, ma amato, aiutato, servito.
Dove l’unica ambizione consentita è quella del servizio generoso e disinteressato: “Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore (diakonos), e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo (doulos) di tutti”: servitore e schiavo per amore, sono gli unici titoli nobiliari dei ministri della Chiesa. In questo Gesù si è proposto come modello, egli, il vero grande perché Figlio di Dio. Egli “venne” (élthen) nel mondo “non per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per tutti”. Il suo è un servizio di amore praticato fino in fondo con l’offerta della sua stessa vita come “espiazione” (lytron), cioè come sostituzione della nostra vita con la sua, come prezzo di riscatto della nostra morte con la sua morte. E tutto questo fatto per puro amore. Giovanni poteva dire: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16). C’è chi la dona tutta in una volta e c’è chi la spende giorno dopo giorno con stillicidio quotidiano.