Nelle letture della solennità di Pentecoste emerge una relazione che non dobbiamo sottovalutare: quella tra il racconto della costruzione della torre di Babele – lettura prevista per la messa vespertina nella vigilia -, e il brano della messa del giorno, che descrive la discesa dello Spirito nel cenacolo. Come mai questo accostamento? Infatti il racconto della Pentecoste non contiene probabilmente nessuna allusione all’episodio della torre di Babele, contrariamente a quanto alcuni padri della Chiesa ritenevano. È comunque un fatto che il lezionario – e quindi l’interpretazione liturgica, della Chiesa – propongano invece tale combinazione. Babele o il Sinai? Per descrivere la discesa dello Spirito l’autore degli Atti utilizza invece immagini e simboli tipici delle grandi teofanie di Dio. Questo perché il dono dello Spirito, come qualsiasi altra ‘realtà di Dio, non può essere descritta in se stessa, ma presuppone l’aiuto di segni’simboli: il vento, il fuoco, il fragore.
La descrizione stessa dei fenomeni qual è riportata dall’autore non permette di farsene una rappresentazione concreta, chiara. L’avverbio come, inoltre, suggerisce di non soffermarsi sulla materialità di ciò che viene descritto e avverte che siamo nel campo dell’analogia(Rossé). La narrazione fatta da Luca, in particolare, è molto simile a quella della teofania del Sinai (Es 19): che volesse quindi interpretare la discesa dello Spirito come un nuovo Sinai? Non ne siamo certi: ma se fosse così – scrive il card. Martini – allora l’autore “presenterebbe la Pentecoste come la promulgazione della legge nuova, non più fatta di comandi incisi su tavole di pietra, ma consistente nella pienezza dello Spirito effuso nei cuori dei fedeli”. Ma torniamo a Babele. Babele. La scena della costruzione della torre, che tutti conosciamo, non è il centro del racconto. Anche se gli abitanti della città dicono di volersi costruire “una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo” (Gen 11,4), il brano si apre con una strana annotazione: “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gen 11,1).
Qui – non nella costruzione della città, che viene dopo, in ordine logico, qui – nel fatto di avere una stessa lingua, sta il problema. Quegli uomini sono troppo “uguali”, non rispettano la ricchezza della differenza che Dio ha impresso nel loro essere ad immagine Sua. Ma, soprattutto, non osservano più il primo comando dato agli uomini, quello di Gen 1,28, il comando di spargersi per il mondo: “Moltiplicatevi, riempite la terra”. Al contrario, a Babele gli uomini dicono di voler costruire una città “per non disperdersi su tutta la terra” (Gen 11,4). Per questo loro peccato, dovendo rimediare alla situazione e riportare tutti al progetto iniziale, Dio confonde le loro lingue e li disperde. Il cenacolo. Dopo l’intervento di Dio, gli uomini di Babele non si comprendono più tra di loro, e ora invece a Gerusalemme tornano a parlarsi. Ma ciascuno di quei popoli che elenca l’autore degli Atti continua ad usare la propria lingua, e solo quella comprende: “ciascuno li sentiva parlare la propria lingua” (At 2,6; cfr. 2,8.11).
Non come a Babele, dove invece si parlava una lingua sola, quella dell’egoismo, della ricerca del privato, della veduta ristretta, quella del proprio quartiere, della propria torre, della propria città. A Pentecoste non verranno annullate le diversità, saranno anzi valorizzate, non si ritroverà più quell’unica lingua perduta a Babele, ma sarà la Chiesa che dovrà imparare i linguaggi degli altri. È interessante che la comunità delle origini ci dia il senso della missione, che non è mai scontro o imposizione con le culture degli altri, ma incontro e anche scambio. Scrive Romano Penna: “All’origine, non è il vangelo che preesiste alle culture, ma sono le culture che preesistono al vangelo. Esso viene già condizionato dal terreno, dalla pasta o dalla pianta, di cui recepisce alcuni fattori distintivi, condividendone la natura prima ancora di influire su di essa. Come possiamo dedurre dal Nuovo Testamento, alcuni elementi culturali entrarono a far parte costitutiva dell’Evangelo stesso, anche se questo operò un vaglio all’interno delle culture stesse”.
Uscire da Babele e dal cenacolo. Lo Spirito santo spalanca le finestre, lascia che entri aria fresca e chiede di uscire da quel cenacolo chiuso; anzi, farà partire i cristiani dalla loro piccola città (dove forse il cristianesimo sarebbe rimasto uno dei tanti movimenti giudaici), per rendere il loro credo fede universale, cattolica. È lo Spirito che permette di cogliere il bene e il bello presenti negli altri, e di inculturarsi. Di quale dono dello Spirito abbiamo bisogno oggi? Di tutto il settenario, ma forse in questi tempi tristi di guerra, di scontri di civiltà, di “rabbie” e di “orgogli”, necessitiamo in modo molto particolare del dono del saper parlare le lingue degli altri. Che accada di nuovo come quando – scrive S. Ireneo – i discepoli e Maria nel cenacolo “ricondussero all’unità le razze disperse e offrirono al Padre le primizie di tutte le nazioni”.