Con questa domenica, la prima di Avvento, inizia un nuovo anno liturgico, ossia il calendario delle liturgie cattoliche, in cui ci sarà dato di ripercorrere sacramentalmente la vicenda storica della nostra salvezza. Esso inizia appunto con l’Avvento, continuerà con il tempo di Natale, poi verrà l’Epifania, la Quaresima, il tempo di Pasqua, quello di Pentecoste (27 maggio), e si andrà a concludere all’inizio di dicembre del 2012. La liturgia invita, in modi sempre nuovi, ad alzare gli occhi per scrutare l’orizzonte, in attesa del Signore che viene.
L’invito si accentua particolarmente in Avvento. Se potessimo domandare alle prime generazioni cristiane: chi può essere considerato cristiano? Ci risponderebbero: chi accoglie Gesù Cristo come l’unico Salvatore della propria vita e ne attende il ritorno glorioso; anzi lo affretta, pregando insieme ai fratelli Maranatha, vieni, Signore! Lo testimonia anche san Paolo nella seconda lettura, quando benedice Dio, perché la comunità dei Corinzi aspetta la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo (1 Cor 1,7).
Con il passare del tempo la dimensione del Dio che viene si è andata affievolendo, nella percezione popolare, a favore dell’immagine di un Dio statico: l’aristotelico Motore immobile. Non così la liturgia, che oggi si apre con il grido straziante di un popolo che da lungo tempo attende un Liberatore: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti” (Is 64,1). È l’immagine antropomorfica di Dio che, pur di scendere in mezzo al suo popolo, non teme di lacerare quel capolavoro che è il tessuto della volta celeste. Siamo in una delle pagine più potenti del libro del profeta Isaia; brano poetico, di grande impatto emotivo; la forza dell’invocazione, la confessione dei peccati, il rimprovero a Dio incurante delle loro sofferenze, si fondono in slanci lirici ineguagliati.
Vale la pena fermarci brevemente ad ascoltarla. Appare improvviso un coro di penitenti che professa la propria fede, gridando a Dio: “Tu sei nostro Padre… nostro Redentore” (Is 63,16). È raro che nell’Antico Testamento ci si rivolga a Dio direttamente chiamandolo Padre. Qui il coro dei penitenti lo fa, perché fra poco oserà rivolgergli un rimprovero: “Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie?”. Con un padre si può; con un padrone non si può. Poi esplode l’invocazione appassionata: “Ritorna, per amore dei tuoi servi!”. Al culmine dell’esperienza di una solitudine impotente, ecco il grido centrale: “Se tu squarciassi…”.
Eppure la memoria storica – continua il coro – attesta che Dio ha compiuto meraviglie nei tempi passati; al tempo dei nostri padri, non si sentì mai dire che qualcun altro abbia fatto tanto per loro. “Tu vai incontro a quelli che praticano la giustizia”. Segue il riconoscimento sincero delle proprie colpe: a causa dei loro peccati Egli ha nascosto il volto. “Tu sei adirato perché… siamo stati ribelli… come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia… nessuno invocava il tuo nome… ci avevi messo in balia delle nostre iniquità, che ci hanno portato via come foglie secche nel turbine del vento”. Pensate: il peccato sperimentato come forza maligna che ci logora dentro e ci rende aridi, morti come foglie senza più vita. La conclusione riprende l’invocazione dell’inizio: “Ma, tu Signore, sei nostro Padre”; parole che esprimono fiducia, dopo la confessione dei peccati. Nell’afflizione si rivolgono al Padre sotto il peso delle colpe. E per spingerlo a commuoversi per la loro situazione, gli ricordano che sono suoi figli, sue creature: “Noi siamo argilla e tu colui che ci plasma” (Is 64,7).
L’assemblea liturgica fa eco a Isaia, cantando: “Tu, Pastore di Israele, ascolta… risveglia la tua potenza e vieni a salvarci (Sal 79,1). Gesù, atteso nel prossimo Natale, è il compimento della profezia: squarcerà i cieli ed entrerà nel grembo della Vergine Maria. La lettura evangelica riprende il motivo della vigilanza delle scorse domeniche. L’evangelista però non è più Matteo, ma Marco, che ascolteremo durante l’intero anno liturgico. Il brano di oggi si trova alla fine di quello che gli studiosi chiamano “discorso escatologico”, cioè che tratta delle cose ultime (Mc 13).
Il capitolo inizia significativamente con l’intervento di un discepolo che invita Gesù ad ammirare la stupenda architettura del tempio di Gerusalemme, considerato una delle meraviglie del mondo antico. Per tutta risposta Egli ne preannuncia la distruzione totale: “Non resterà pietra su pietra” (Mc 13,2). Cosa che avverrà qualche decennio più tardi – nel 70 d.C. – ad opera dei Romani. I cristiani vi vedranno l’intervento di Dio, che decide la fine di un’èra. Nel frattempo è necessario essere vigili e operosi; nessuno infatti sa nulla di quando sarà la venuta decisiva del Signore, tranne che sarà improvvisa.