Il Vangelo di questa domenica ci narra ancora una volta i fatti del giorno della risurrezione. L’insistenza non è casuale: la Chiesa continua a ricordarci che ogni domenica è Pasqua, il giorno in cui Gesù vince la morte e incontra nuovamente i discepoli. Il capitolo 24 del Vangelo di Luca da cui è tratto l’episodio dell’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus descrive come Gesù ha passato l’intero giorno di Pasqua: al mattino sta con Maria al sepolcro e poi, quasi per l’intera giornata con i due discepoli di Emmaus.
Solo alla sera, al termine del giorno, lo troviamo nel cenacolo con gli apostoli. Gesù -racconta l’evangelista-entra nel cenacolo mentre i due discepoli, tornati in fretta da Emmaus, stanno ancora raccontando quello che è accaduto loro lungo la via. Gli apostoli al vedere “Gesù, in persona”, venire in mezzo a loro sono presi da stupore e spavento.E come già altre volte era accaduto, anche ora pensano sia un fantasma. Ancora una volta -domenica scorsa abbiamo visto lo scetticismo di Tommaso-il Vangelo di Pasqua deve sottolineare l’incredulità degli apostoli. Vengono in mente le parole del prologo di Giovanni: “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”.
Gli amici più stretti stanno parlando di lui, si riferiscono tra loro le varie apparizioni, potremmo dire che sono ormai quasi convinti della sua risurrezione, tanto che dicono: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24, 34). Eppure, appena Gesù entra in mezzo a loro pensano sia un fantasma, una figura astratta, irreale. Si spaventano, persino. Eppure, Gesù glielo aveva detto e spiegato. “Ma si sa – avranno continuato a pensare i discepoli con la loro stolida sicurezza – Gesù esagera sempre, e alle sue parole bisogna fare la tara”. Così pensarono i tre discepoli, gli amici più intimi, quella sera all’orto degli ulivi quando sottovalutarono l’angoscia di Gesù e non seppero stargli vicino neppure per un’ora. Agonizzante o risorto, essi non sanno né riconoscerlo né accoglierlo.
Ebbene, bisogna partire proprio da questa inaccoglienza, vestita di stolto realismo, per comprendere l’odierna pagina evangelica. Siamo anche noi assieme ai discepoli quella sera di Pasqua, stupiti e spaventati. Anche noi pensiamo tante volte che il Vangelo sia una specie di fantasma, ossia che si tratti di parole astratte, lontane dalla vita, belle ma impossibili a vivere; e ne abbiamo anche paura perché pensiamo che siano troppo esigenti, che chiedano sacrifici, che propongano rinunce, che pretendano una vita poca felice. Ne consegue che con incredibile facilità le depotenziamo e le infiacchiamo nella loro radicalità perché non ci disturbino troppo. Ma Gesù torna; torna ogni domenica e dopo il saluto di pace dice a tutti noi: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono io! Toccatemi e vedete; uno spirito non ha carne ed ossa come vedete che ho io”. Mentre parla in questo modo, mostra loro le mani e i piedi segnati ancora dalle ferite dei chiodi; non propone una lunga e dotta disquisizione teorica sulla risurrezione, e neppure si mette a fare teorie sulla fede. Gesù mostra la realtà concreta del suo corpo risorto, ma ancora ferito. E forse l’ultima ferita – questa volta tocca l’anima – gliela stanno infliggendo proprio in quel momento i discepoli con la loro inaccoglienza.
L’evangelista sembra però indicare una via per superare questa distanza; una via non teorica e astratta ma molto concreta. Potremmo chiamarla la via nell’incontro con le sue ferite. Gesù per vincere i dubbi dei discepoli, dice loro: “Guardate le mie mani i miei piedi; sono proprio io! Toccatemi e guardate”. Le ferite sul corpo, senza dubbio ci dicono che il Gesù di Pasqua è lo stesso Gesù del Venerdì santo, ma la loro permanenza nel corpo del Signore risorto richiama anche la realtà del dolore e del male ancora presente in questo mondo. La risurrezione certo è avvenuta ma deve continuare ancora.
È iniziata con Gesù, il capo del corpo, si potrebbe dire; ma ci sono tante parti di questo unico corpo che hanno ancora ferite aperte: sono i poveri, i malati, i carcerati, i torturati condannati a morte, i paesi in guerra, i colpiti dalle disgrazie e dalla violenza. E l’elenco può continuare ancora più a lungo. Dietro questo invito di Gesù ci sono oggi milioni e milioni di bambini, di vedove, di orfani, che continuano a attendere aiuto e davvero pochi “guardano” e ancor meno si incamminano per “toccare”. Sì, vedere e toccare! Questi sono i verbi della risurrezione: accorgersi di chi ci sta accanto e soffre e non passare oltre come fecero quel sacerdote e quel levita. La vittoria sulla nostra incredulità inizia da quest’incontro affettuoso con il corpo ancora ferito di Gesù. Immediatamente dopo, nota l’evangelista, Gesù “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture”. Già durante la giornata, la gran parte di essa, Gesù l’aveva passata spiegando le Scritture ai due discepoli di Emmaus che se ne stavano tornando a casa tristi e rassegnati. Eppure essi conoscevano le pagine dell’Antico Testamento, e avevano anche più volte ascoltato la parola di Gesù. Ma fu necessario che i discepoli ascoltassero nuovamente il Vangelo e si lasciassero toccare il cuore.
Non basta ascoltare una volta o alcune volte le Sante Scritture. Il credente deve riscoprire la gioia di frequentare ogni giorno le Sante Scritture. Ogni domenica Gesù torna e parla a ciascuno di noi, come fece con i due di Emmaus. Dalla Pasqua perciò inizia un ascolto che non termina più: quella Parola proclamata e predicata è la linfa della vita di ogni discepolo e dell’intera comunità. Senza di essa saremmo senza nutrimento, senza pane. La carestia sarebbe tremenda; e non solo per i discepoli ma per il mondo intero. Ogni domenica perciò il Signore ci raccoglie, apre la nostra mente all’intelligenza delle Scritture e riscalda i nostri cuori. Di questo Vangelo – dice Gesù ai discepoli di ogni tempo – “voi siete testimoni”.