Olimpiadi: la Cina gioca pesante

L'8 agosto la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi a Pechino

Alla fine ci andranno tutti, o quasi. Bush e Sarkozy, Gordon Brown; per quel che conta ci sarà anche l’Italia: i potenti dell’Occidente non possono permettersi di disertare la cerimonia inaugurale dei Giochi di Pechino, se non vogliono incorrere nelle rappresaglie economiche cinesi e nel mugugno, nemmeno troppo dissimulato, dei propri imprenditori, che della Cina hanno bisogno per lavorare – o anche, per fare profitti a due cifre, divenuti da tempo impossibili o troppo difficili a casa propria. Accantonato il problema del Tibet, le Olimpiadi si preparano davvero ad essere la ‘vetrina’ con cui la Cina moderna si presenta al mondo nella figura di nuova superpotenza, unica vera competitrice degli Stati Uniti d’America. L’accorrere dei leader occidentali a Pechino è anche la prova di quanto poco contano i ‘diritti umani’ – non tanto per la Cina, quanto per l’Occidente stesso che, a forza di ‘politicamente corretto’ sembra aver ridotto a gioco da salotto (o girotondo) tutti i temi della propria identità collettiva. Anche perché non è così facile scagliarsi sulle violazioni cinesi dei diritti umani e tenersi in casa – in Occidente – Abu Grahib, Guantanamo e quant’altro. La Cina prende molto sul serio l’appuntamento: è la data simbolo del ‘ritorno nel mondo’, dopo i lunghi secoli dell’isolamento imperiale e gli anni, altrettanto lunghi e insanguinati, dell’utopia maoista. La data scelta non potrebbe essere migliore, per un popolo superstizioso come quello cinese: 8/8/08, e laggiù quel numero vuol dire solo fortuna e prosperità. È quello cinese, un ritorno con tutti i crismi: il tempo delle Olimpiadi corrisponde ad una fase di crescita (economica, politica, sociale) che non ha paragoni per rapidità, estensione, numeri, nella storia del mondo. Crescita degli aspetti positivi ma anche, ovviamente, dei problemi; per un continente che, 50 anni fa, non raggiungeva neppure l’autosufficienza alimentare dei propri abitanti i termini di paragone vanno considerati con molta attenzione. E però la ‘nuova presenza’ della Cina sulla scena mondiale è a tutto campo, dall’industria manifatturiera alla diplomazia internazionale; dagli interventi sui mercati finanziari alla ricerca spaziale, alla realizzazione di infrastrutture enormi e a volte anche pericolose o poco ecologiche (la diga delle Tre gole, la ferrovia Pechino-Lhasa). Uno sviluppo così veloce non può non creare squilibri. Se le zone costiere e le grandi aree metropolitane stanno rapidamente raggiungendo soglie di reddito e standard di vita simili all’Occidente la Cina dell’interno, contadina, continua a rimanere un Paese povero e poco sviluppato. Le migrazioni interne generano una miseria diversa dalla povertà diffusa delle economie pianificate; e aprono scenari di conflitto sociale che solo ora cominciano a manifestarsi o a essere conosciuti (il controllo delle informazioni è sempre stato, necessariamente, un punto fermo della presenza del regime). Ma questo ingresso nelle dinamiche sociali ‘occidentali’ andrebbe ancora confrontato, per essere compreso appieno con la cultura della ‘Cina profonda’ confuciana e imperiale, con quella necessità di ordine sociale e di identità nazionale che il Partito continua a interpretare, al di là di tutti i cambiamenti di linea in materia di economia o di politica internazionale. Il Pcc è, paradossalmente, la continuazione di quell”armonia’ che ha guidato le dinastie imperiali cinesi lungo 25 secoli. Un’armonia che, nella tradizione taoista, era il frutto della compensazione, della comprensione profonda di ogni aspetto della realtà. ‘Ma l’idea stessa di armonia – osservava Sergio Quinzio – è comunque, per noi occidentali, al limite dell’impensabilità. Il nostro ideale non va quasi mai al di là della speranza di riuscire a escogitare e applicare rimedi parziali e provvisori a una storia che sappiamo tragica’. Non è un caso che, anche di questi tempi, anche potendo emigrare, gli studenti migliori, i giovani più intelligenti e preparati, chiedano l’iscrizione al Partito comunista.