L’attesa parte da lontano, sin dal giorno in cui Dio disse al primo uomo: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,2). Da quel giorno, che fu già carico di promessa, s’ebbe un incalzare di preannunzi profetici, sino a quel “germoglio di giustizia” che ascoltammo domenica scorsa sulle labbra del profeta Geremia. Il germoglio è una promessa di fiore o di albero fruttifero che genera speranza, è promessa che provoca attesa e produce una fioritura che viene da tutti ammirata. Nel brano storico che abbiamo letto c’è il racconto d’una migrazione forzata e dolorosissima: l’esilio del popolo ebraico in Babilonia al tempo di Nabucodonosor; e l’esilio suscita sempre speranza di ritorno in patria.
Il profeta Baruc si fa portatore di questa sofferta attesa: incoraggia il popolo a dismettere i segni del lutto, e i deportati a rivestirsi dello “splendore della gloria di Dio”, anzi ad indossare “il diadema di gloria dell’Eterno”, perché è Dio stesso che prende le difese degli umiliati e degli oppressi e manderà loro un liberatore. “Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui”. È un nuovo esodo di liberazione. È su questa speranza del cuore, fondata sull’esperienza già vissuta della singolare e incredibile liberazione dalla schiavitù in Egitto, che il popolo dei vinti fa leva per procedere anche questa volta “sicuro sotto la gloria di Dio”, la sua shekinà, come fu nella traversata del Mar Rosso. Il Salmo responsoriale 125, il canto del ritorno in patria, dà voce alla gioia collettiva.
C’è però un cammino non meno faticoso, quello dal male al bene che deve sfociare nella conversione, e cioè nel passaggio dal rifiuto di Dio all’amore di Dio, spiegazione e fine ultimo del nostro esistere, vivere e morire. Anche il peccatore vive una sorta di esilio dalla potenza della luce di verità, dal calore della bontà, dal coraggio della perseveranza: esilio non meno doloroso e avvilente di quello sociale e politico. Paolo, nella sua Lettera alla comunità cristiana di Filippi, ci offre con saggezza le coordinate di questo cammino di ritorno che deve mirare a “distinguere sempre il meglio”. E il meglio è sempre, per tutti, l’imitazione di Cristo, l’impegno a raggiungere la sua statura, ad essere “ricolmi di quei frutti di bontà e di santità, che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo” (Fil 1,22), aderendo a lui come l’ostrica alla roccia.
In ogni caso la liberazione che Dio ci offre è per noi già arrivata con la nascita e l’opera storica di Gesù, ed è qui entrata nella nostra storia personale e collettiva, come il minuzioso racconto dell’evangelista Luca, da vero ufficiale dell’anagrafe, sta lì a dimostrare. È Gesù il vero liberatore dell’uomo dalle sue schiavitù più nascoste, dalle sue ferite più vergognose, dalle sue paure più segrete. È Gesù che rivela l’uomo all’uomo, coniugando libertà con verità e amore, consentendogli di realizzarsi come uomo e come figlio di Dio. Possiamo però chiederci, magari suggestionati dalle cose prodigiose che l’uomo è oggi capace di realizzare, grazie agli sviluppi fino a ieri impensabili della scienza e della tecnica: ma c’è ancora bisogno di questo singolare liberatore e salvatore? La cronaca personale e collettiva dei tanti ingorghi fisici e spirituali, in cui finiscono spesso per affogare le più belle intenzioni, sta lì a ricordarci molto realisticamente che siamo sognatori fragili e contraddittori, e soprattutto peccatori.
Abbiamo bisogno di una liberazione plenaria che raggiunga tutto l’uomo, nel suo pensare e nel suo operare. Abbiamo bisogno di una nuova evangelizzazione. La Chiesa, come Paolo VI ci ha insegnato, “esiste per evangelizzare”; e l’evangelizzazione, è il primo annuncio della salvezza a chi, per ragioni varie, non ne è a conoscenza o ancora non crede. “Cristiani, infatti, non si nasce, ma – come diceva Tertulliano – si diventa”. Per questo i Vescovi ci ripetono in maniera chiara: “Oggi è necessaria una pastorale missionaria, che annunci nuovamente il Vangelo, che sostenga la trasmissione della fede di generazione in generazione, che vada incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo, testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza umana conformemente al Vangelo e, nel nome del Vangelo, contribuire a rendere nuova l’intera società” .
Giovanni Paolo II in più interventi ha spiegato che la “nuova evangelizzazione” è tale per fervore degli evangelizzatori, per linguaggi, per metodi, e ha chiamato a raccolta tutta la Chiesa, missionaria in ogni suo frammento e in ogni suo anelito, auspicando comunione ed integrazione fra tutte le forze disponibili. Papa Benedetto è su questa stessa linea. Anche questo specifico impegno, che ogni Chiesa locale (parrocchia, unità pastorale) deve sentire come suo, consente di commemorare bene il Natale, e cioè la venuta fra noi dell’unico vero liberatore e salvatore di tutti, Gesù, vero Dio e vero uomo.