La lettura evangelica di questa domenica si apre con il prologo del Vangelo secondo Luca, che sarà “luce a nostri passi” lungo tutto questo anno liturgico. Abbiamo avuto occasione di ascoltarne i primi capitoli durante il tempo d’Avvento e di Natale. Da oggi ne ascolteremo la lettura quasi continua. Vale la pena spendere qualche riga a commento di quei primi quattro versetti, dai quali abbiamo informazioni preziosissime. Lo scrittore si presenta in prima persona con la dedica ad un amico illustre di nome Teofilo. Probabilmente non sapremo mai se si tratta di una persona realmente esistita o di uno pseudonimo.
Teofilo è un nome di origine greca che significa “amico di Dio” o “amato da Dio”. Pertanto il dedicatario potrebbe essere ogni lettore, che sa di essere amato da Dio, e dunque anche ognuno di noi. Luca non fece parte del gruppo dei discepoli che seguirono Gesù durante la vita terrena, ma lo conobbe dopo la Risurrezione, ascoltando la predicazione dei “testimoni oculari”. Veniva dal paganesimo; era persona di alta cultura; accompagnerà, in alcuni viaggi, san Paolo, che lo chiama “il caro medico” (Col 4,14); una leggenda racconta che era pittore. Era formato nell’arte della narrazione storica, di cui dà prova già nel prologo, parlando del metodo usato per la sua composizione letteraria: “fare ricerche accurate… comporre un resoconto ordinato”, allo scopo di fornire al lettore una solida base circa gli “insegnamenti ricevuti”. Fonti della narrazione sono “coloro che furono testimoni oculari fin da principio”. Dunque, sul piano storico, ci possiamo fidare di Luca almeno quanto ci fidiamo di altri storici dell’antichità classica.
La liturgia di oggi salta a piè pari i primi tre capitoli del Vangelo di Luca, che abbiamo ascoltato nelle scorse settimane e salta anche l’inizio del quarto capitolo, che ascolteremo all’inizio della Quaresima. Comincia presentando l’inizio della predicazione di Gesù nella sua regione, la Galilea. Lo fa sottolineandone alcuni dettagli, che si riveleranno cruciali. Gesù torna a Nazareth: era vissuto per qualche tempo con i discepoli di Giovanni Battista nei pressi del fiume Giordano; lì aveva ricevuto il battesimo; poi aveva fatto esperienza di una lunga lotta con il Maligno nel deserto. La nuova fase della sua vita ha inizio con la preghiera sinagogale in giorno di sabato.
Luca racconta che entrò nella sinagoga, di sabato, “come era solito fare”. Era dunque un buon giudeo osservante. Nei riti del sabato era consuetudine che, dopo le orazioni previste e la lettura di un brano della Torah, qualcuno si presentasse a leggere e commentare brevemente un testo da un libro profetico. In quell’occasione si presentò Gesù, che ritualmente si alzò, autorevolmente aprì il rotolo del libro di Isaia al capitolo 61 e ne lesse alcuni versetti. Il profeta scriveva di avere ricevuto l’unzione della Spirito, che lo mandava ad annunciare una lieta novella ai poveri; la libertà ai prigionieri e agli oppressi; un tempo di benevolenza per tutti da parte del Signore. (Ascoltate come poi rallenta il ritmo narrativo). Dopodiché richiuse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette.
La gente che era in sinagoga aveva certamente ascoltato altre volte le parole di questa profezia, sempre sospirandone il compimento. Questa volta però dovette accorgersi che qualcosa di serio stavano cambiando; tant’è che gli occhi di tutti presero a fissarlo. Il commento di Gesù fu breve: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato”. Bastava. I tempi erano maturi: la Parola trasmessa nello scritto dell’antico profeta si era fatta carne in quel loro paesano. Sapremo poi che la gente reagì in modo contraddittorio: in un primo momento si entusiasmarono, poi si scandalizzarono. Come era possibile che il figlio del carpentiere del villaggio, senza studi accademici, potesse parlare con tanta autorevolezza? C’era sotto qualcosa di non chiaro.
Di tutta questa ricchezza, la liturgia oggi sottolinea un aspetto: il compimento della Parola. Gesù è il compimento di quanto era stato scritto nell’Antico Testamento. La prima lettura racconta una “liturgia della Parola” celebrata a Gerusalemme, città non ancora del tutto ricostruita dopo il ritorno dall’esilio. Il sacerdote Esdra era il presidente del rito e proclamava la Parola da un podio. L’assemblea ascoltava in silenzio “dallo spuntare della luce fino a mezzo giorno”. La Torah era proclamata in lingua ebraica, che gran parte della gente aveva dimenticato durante i lunghi anni d’esilio. Per questo i leviti, sparsi in mezzo al popolo, la traducevano oralmente, e la commentavano in lingua aramaica, diventata ormai la lingua popolare. Il popolo piangeva di commozione; si dovette raccomandare loro di non far lutto, perché quello era un giorno di festa; ma piuttosto di andare a casa e mangiare carne e bere vino dolce e farne partecipi quelli che non ne avevano.