È ancora il rude profeta Amos, di cultura contadina, a dare l’impronta alla nostra lettura della Parola di Dio. Comincia con il “guai agli spensierati di Sion e ai tranquilloni di Samaria”, che vivono da nababbi sdraiati su letti d’avorio, mangiando le carni tenere degli animali riservati ai sacrifici religiosi, canterellando al suono dell’arpa, inebriandosi con larghe coppe di vino, ungendosi con gli unguenti più raffinati, offendendo con questi loro comportamenti d’opulenza i poveri e gli oppressi… Ma cesserà l’orgia dei bontemponi! E ci sarà pure un Dio che farà giustizia!
Un po’ di giustizia umana potremmo anche aspettarcela dagli uomini, ma chi ha preteso di metterla in atto e di fare eguaglianza, con la sua rabbia distruttiva ha fatto ingiustizia su ingiustizia e ha trasformato le nazioni in cimiteri, con centinaia di milioni di persone uccise: e questa, sia chiaro, non è giustizia, ma delinquenza assassina! Saranno mai capaci gli uomini di governare nella giustizia e nella pace? Papa Benedetto XVI, parlando nella Spe salvi n. 45 del Giudizio finale e della giustizia di Dio, afferma che “alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di persone in cui tutto è diventato menzogna, che hanno vissuto con l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore… È questo che si indica con la parola inferno”. La risposta di Paolo è tutta giocata invece sulla esemplarità di vita dell’uomo di Dio. C’è una buona battaglia della fede da perseguire, camminando per le vie delle virtù forti: dalla giustizia alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.
Virtù che consentono di rinnovare la bella professione di fede che fu già di Timoteo, e che deve essere anche di ciascuno di noi nella anemica e contraddittoria società di oggi, che rifiuta Dio o lo ignora. In questo testo di Paolo c’è una affermazione magisteriale inequivoca: Radix omnium malorum cupiditas est, e cioè “l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali” (v. 10). Quello che doveva essere uno strumento di servizio, il denaro, è diventato un despota che guida i nostri pensieri, le nostre scelte, la nostra libertà. Ci saremmo forse aspettati che, come radice di tutti i mali, Paolo avesse indicato l’orgoglio, la lussuria, la violenza, la menzogna, o altro ancora. Paolo invece non dice così: la radice, forse pure a tratti dormiente, è la bramosia delle ricchezze che ti fanno potente, rendendo te “martello” e tutti gli altri “chiodi da battere!”.
Ai ricchi e ai potenti perciò Paolo raccomanda, a chiusura di lettera: “Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così metteranno da parte un buon capitale per il futuro onde acquistarsi la vita vera” (v. 19). Ed anche Gesù interviene nella querelle dei beni terreni con la parabola del povero Lazzaro, un mendicante tutto piagato cui solo i cani andavano a leccare le ferite; e del ricco Epulone, un uomo che vestiva sempre di porpora e di bisso e banchettava lautamente tutti i giorni. Epulone non è il nome proprio del ricco, che rimane anonimo, con l’appellativo datogli dalla tradizione per indicare l’uomo che fa banchetti tutti i giorni vivendo tra le epule. Chiede almeno la carità di mandare Lazzaro ai suoi cinque fratelli, epuloni come lui; ma, Abramo risponde bruscamente: “Hanno Mosè e i profeti: li ascoltino!”. Nel tempo della giustizia di Dio, la situazione s’è capovolta: ed è il tronfio epulone a bruciare di sete e l’umile mendicante a vivere nella consolazione. Come ben sappiamo, l’evangelista Luca mostra un particolare gusto nel proporre esempi di vita o racconti con personaggi specularmente opposti, per far risaltare la stupidità e l’autolesionismo dei presuntuosi e la virtù premiata degli umili e degli ultimi della vita.
È Gesù stesso che conclude la predicazione prepasquale con l’amara considerazione: “Com’è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio! È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio!” (Lc 18,24-25). Non si tratta ovviamente d’una pietra tombale definitiva sulla sorte dei ricchi, ma è certamente qualcosa di pesante che solo Dio, con il dinamismo delle virtù sollecitato dalla sua grazia, può risolvere compiutamente (Lc 18,27). Non è male, comunque, farci investire dalla forte perplessità della gente: Quis potest salvus fieri?, “E chi può essere salvato?”, per entrare nella logica austera della conversione.