Ritorna, nella Parola di Dio che la Chiesa oggi ci offre, il tema di “mammona”, voce aramaica per dire la ricchezza idolatrata. La ricchezza fa balenare ai nostri occhi potenza, sicurezza, soddisfazioni d’ogni genere, sovrana libertà di fare quello che salta in testa, senza ostacoli da parte di nessuno. Davvero è il dio in terra, efficiente ed efficace nelle sue insidie e suggestioni, tant’è vero che Gesù ne parlò più volte per metterci in guardia. Quel mammona è definito anche “di iniquità” perché solitamente nasce da ingiustizie (furto, sfruttamento, disonestà, ricatti, mafie) e determina schiavitù.
Ovviamente non tutte le ricchezze sono di natura truffaldina, in quanto ci sono anche ricchezze frutto di lavoro onesto e intelligente. Gesù comunque è drastico: non si possono servire due padroni, Dio e la ricchezza. Gesù usava con gli ipocriti parole di fuoco: “Guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta e sulla ruta (Matteo aggiunge anche: sull’aneto e sul cumino) e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore“ (Lc 11,42). Ma, continua l’evangelista, “i farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano queste cose e si facevano beffa di lui”, confermando così il loro amore per l’idolo. La prima lettura, che è tratta dal rude profeta Amos, pastore e agricoltore di Tekoa, “difensore degli oppressi senza voce”, descrive alcuni sotterfugi disonesti usati dai benestanti (bilance false, manomissione delle misure, aumento arbitrario del valore della moneta, vendita degli scarti di produzione, ecc.) per attirare i poveri dalla loro parte e comprarli poi con un paio di sandali! E tuttavia Dio rimane dalla parte del povero e ne prende le difese, come recita il Salmo responsoriale: Dio “solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi”.
Molto comunque, nel fare giustizia, possono gli uomini chiamati a governare il popolo, cui noi dobbiamo rispetto per il servizio dell’equità nella giustizia. Paolo, scrivendo a Timoteo, gli raccomanda prima di tutto che si facciano “domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per i re e per tutti quelli che stanno al potere”. Il motivo di questa preghiera, prioritaria e insistente, è “perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla, con tutta pietà e dignità” (1 Tim 2,3). E questa, dice Paolo,“è una cosa bella e gradita”, opera specifica del potere politico con la forza della legge e, se necessario, anche con rimedi coercitivi. Questo comportamento dei cristiani nei riguardi dell’autorità civile è molto interessante: né indifferenza né servilismo, ma sostegno al buon governo, perché promuova il bene comune in un contesto di libertà, di giustizia, di pace. Ritorna a proposito il criterio di Gesù, che è di distinzione dei ruoli e di rispetto: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”; un criterio riferito dai tre Vangeli sinottici di Matteo 22,21, Marco 12,16 e Luca 20,24.
Il conio della moneta è di Cesare, ma il conio dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è di Dio. L’uomo attende giustamente da Cesare la difesa della giustizia e dell’onestà, e la promozione del bene comune, che è il bene di tutti e non d’una sola parte; ma non garantirà mai a Cesare una sudditanza assoluta che spetta solo a Dio. E sarà questo il motivo per cui tanti martiri dettero e continuano a dare la vita, difendendo così la libertà e la dignità d’ogni persona, creatura di Dio unica e irrepetibile. Tutti i cristiani sono chiamati a questa fierezza, che è dono di Dio invocato ogni giorno, come Paolo chiede imperiosamente: “Voglio che gli uomini e le donne preghino dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure, senza ira e senza contese”.
Anche l’ira e le contese, che fanno perdurare nel tempo l’homo homini lupus di Caino contro Abele, sporcano, come ogni altro peccato, la veste candida del nostro battesimo. Anche per questo motivo c’è da riscoprire la forza civilizzatrice e cristiana, oltre che sociale e politica, del perdono e della riconciliazione, prima ancora di fare il nostro atto di culto (Mt 5,23). A tale forza purtroppo non si crede perché l’ira obnubila la nostra mente, ma è percorso da attivare sempre più profondamente e insistentemente anche nelle contese sociali e politiche, se vogliamo veramente la pace.