Il vangelo di oggi (Marco 7,1-8.14-15.21-23) ci presenta lo scontro tra la religiosità semplice e spontanea di Gesù e la gretta e rigida mentalità di fede dei farisei e degli scribi. Questi avevano creato un clima religioso rigido, quasi irrespirabile, con precetti e pratiche innumerevoli ai quali sottostare. La maggior parte della gente comune non conosceva nemmeno i 613 precetti che le autorità religiose obbligavano ad osservare, perché, dicevano, sono come una siepe protettiva nei confronti dei dieci comandamenti di Dio. Ne risultava un puritanesimo opprimente che gravava sulla gente e la faceva sentire massa dannata. Gesù aveva inaugurato una religiosità fatta di rapporti filiali e spontanei con Dio, non più basata sui precetti da osservare in maniera servile. Aveva sfrondato la pratica religiosa di tutte le sovrastrutture artificiali create dagli uomini, riportandola alla sua originaria semplicità fatta di amore e di confidenza.
I rapporti con Dio dovevano essere quelli spontanei di un figlio con il proprio padre. Per arrivare a Dio non ci sono ostacoli di sorta, come riti complicati, biglietti d’ingresso da pagare, carte bollate da compilare. La pratica religiosa non è un’area protetta nella quale si entra mediante riti o formule magiche. L’unica chiave d’ingresso è l’amore di Dio e del prossimo. Dio non vuole schiavi impauriti, ma figli affettuosi e sereni. Il brano che abbiamo letto ci riferisce una discussione nata da una circostanza concreta di vita: alcuni farisei, spiando il comportamento di Gesù e dei discepoli, hanno notato che questi mangiano senza lavarsi prima le mani. Non si tratta per loro di un segno di poca educazione, o di una mancanza di regole igieniche, ma di violazione delle regole religiose. L’evangelista Marco, con una lunga parentesi, spiega ai suoi lettori romani gli usi giudaici che riguardano la purità legale. Egli dice che tutti i giudei praticanti non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani. Ciò fa parte della loro tradizione religiosa trasmessa dagli antenati, e rientra nel complesso delle regole di purità che devono presiedere alla vita di ogni giorno.
Queste regole compongono l’insieme della Halachah, cioè una specie di codice morale pratico che i rabbini insegnavano nelle scuole. Tutta la tradizione giuridica entrò poi a far parte della Mishna (La ripetizione), un’opera che tramanda le lezioni dei maggiori maestri del I e II secolo d.C. Le regole di purità religiosa avevano lo scopo di preservare lo spazio del sacro della vita e tenerlo separato dallo spazio profano. Il popolo di Dio era un popolo santo, separato dal resto degli uomini, doveva perciò salvaguardare e coltivare questa santità che Dio gli aveva comunicato con la sua elezione. Ogni contatto con i pagani e con le loro cose rendeva un giudeo impuro, cioè lo separava dal suo Dio e lo rendeva inadatto agli atti di culto. Egli contraeva una specie di infezione spirituale, che lo separava dal suo popolo e minacciava di contagiare per contatto chiunque avvicinava. Da qui la necessita di lavarsi con acqua limpida. Prima di mangiare bastava versarsi un pugnetto d’acqua sulle mani e sfregarle tra loro. In mancanza d’acqua bastava fare la mossa col pugno semichiuso. Era il colmo dell’ipocrisia. I farisei si lamentano con Gesù per il comportamento indipendente dei discepoli perché il maestro era ritenuto responsabile del loro agire. Senza dire che lui stesso dava il cattivo empio proprio in questo, come racconta Luca (11,38).
Alla critica, Gesù risponde attaccando l’ipocrisia nascosta in certi atti esteriori religiosi fatti senza convinzione e senz’anima e cita a proposito un testo del profeta Isaia (29,13). Il profeta condanna l’atteggiamento esteriore che non nasce dall’obbedienza alla volontà di Dio, ma dalle consuetudini umane e dall’abitudine. Gesù chiama ipocrisia questo modo di agire; è una finzione che assume la fisionomia dell’empietà, perché cerca di ingannare Dio oltre che gli uomini. Si elude il comandamento di Dio sostituendolo con la tradizione umana. A questo punto Gesù porta un esempio che è tralasciato, per ragioni di brevità, dal brano di oggi: i rabbini annullavano il quarto comandamento di Dio, che obbligava al mantenimento dei genitori, accettando arbitrariamente al suo posto il voto di una cospicua offerta fatta al Tempio (vv. 9-13). Con la scusa di rendere un servizio a Dio, negavano valore ad uno dei suoi comandamenti più importanti, il primo della seconda tavola, quella dell’amore del prossimo.
Dopo aver risposto agli scribi e ai farisei, Gesù si rivolge alla folla chiedendo attenzione e comprensione: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene!”. Intende formulare un criterio di discernimento molto importante per la vita: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. Con queste parole, dice l’evangelista, “rendeva puri tutti gli alimenti” (v. 19). Per il cristiano tutto è cibo casher, tutto è legalmente puro. Al massimo un cibo può essere indigesto, tossico, ributtante, ma non impuro. Tutto ciò che Dio ha creato è santo; lo ricorderà Paolo a Timoteo (1 Tim 4,3). Ma con quella frase solenne Gesù voleva affermare una verità più importante ancora: che il peccato non viene da fuori, ma da dentro l’uomo, dalla sua coscienza.
Il male non sta nel sentire, ma nell’acconsentire; non sta nel subire, ma nell’agire. A proposito egli elenca a mo’ di esempio dodici comportamenti peccaminosi più frequenti e più gravi che nascono dal cuore sotto forma di propositi di male. Sono distribuiti in quattro gruppi di tre azioni ciascuno, ma è difficile capire con quali criteri siano elencati. Comunque sono sempre attuali, perché sono i peccati gravi della nostra società, quelli che sporcano terribilmente la coscienza.