Questa era la domenica nella quale ai catecumeni veniva consegnata la preghiera del Padre nostro perché l’imparassero a memoria, così da poterla recitare frequentemente dopo il battesimo. Dovevano sapere che il sacramento che stavano per ricevere li faceva figli di Dio, perché donava loro la vita divina e assicurava la risurrezione finale dei loro corpi. Il battesimo li faceva passare dalla morte alla vita perché li univa strettamente a Gesù, che a Betania dichiara: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?” (11,26). La domanda era rivolta ai catecumeni, ma oggi essa è rivolta a ciascuno di noi. L’ultima parola di Dio è la vita, non la morte. Il nostro Dio è Dio dei vivi, non Dio dei morti.
Pochi cristiani oggi credono alla risurrezione finale; la loro fede si chiude nel solo orizzonte della vita terrena. Paolo griderebbe loro ancora, come fece a Corinto: “Se non vi è risurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto. Se Cristo non è risorto, è vuota la nostra predicazione, è vuota anche la vostra fede. Voi siete ancora nei vostri peccati. Se abbiamo avuto speranza in Cristo solo per questa vita, siamo i più sventurati di tutti gli uomini” (1 Cor 15,12-19). Il Vangelo di oggi ci costringe a confrontarci seriamente con l’articolo del Credo dove diciamo: “Credo nella risurrezione della carne e nella vita eterna”. Il fatto narrato accadde a Betania, un gruppo di case distante cinque chilometri circa da Gerusalemme. Qui risiedeva una piccola famiglia composta da due sorelle, Marta e Maria (Lc 10,36-42), e di un fratello, Lazzaro; tutti e tre scapoli. Erano amici intimi di Gesù che forse, con il suo esempio, aveva ispirato loro il celibato.
Quando Gesù veniva a Gerusalemme per le feste trovava ospitalità in casa loro, fuori dalla confusione cittadina. Siamo in prossimità della festa di Pasqua, l’ultima, quella che vedrà Gesù morire e risorgere. L’episodio di oggi ne è preparazione e segno anticipatore. Nell’introduzione ci viene detto che Gesù si era ritirato oltre il Giordano per sfuggire ai tentativi di cattura messi in atto dai giudei. Questi lo volevano morto ad ogni costo, perché troppo scomodo. In Transgiordania Gesù ricevette il messaggio allarmato e urgente delle due sorelle: “Signore, il tuo amico è malato” (v. 3). La reazione di Gesù è calma e attendista: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio”. L’evangelista precisa che la sua non è indifferenza, perché Gesù “amava molto Marta, sua sorella Maria e Lazzaro” (v. 5).
Dopo due giorni di attesa, decide di tornare in Giudea e precisamente a Betania. Gli apostoli cercano di opporsi alla decisione, perché era come andare nella tana del lupo. Ma Gesù non sente ragioni, e rivela: “Lazzaro è morto, ma io vado a svegliarlo” (v. 11). Quando giunge, trova che Lazzaro è già da quattro giorni nel sepolcro. È ormai troppo tardi per svegliarlo, è già iniziato il processo di decomposizione del cadavere, glielo farà notare proprio Marta davanti alla tomba. All’ingresso nel villaggio gli vengono incontro in successione le due sorelle, che gli rivolgono lo stesso affettuoso rimprovero: “Signore, se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” (vv. 21.32). Con Marta, una forte e concreta massaia ebrea, Gesù ha una lunga e serrata conversazione teologica riassunta da Giovanni. Lei, donna dalla fede forte, confessa chiaramente: “So che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”. Gesù le risponde: “Tuo fratello risorgerà”. E Marta a lui: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”.
È ormai rassegnata ad aspettare con fede l’ultimo giorno, come ogni buon credente che ha perduto una persona cara. Gesù sorprende tutti con un’ardita affermazione: “Io sono la risurrezione e la vita; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi questo?” (v. 26). Marta si rende conto che questo è credere ad un impossibile che può diventare possibile. Non capisce bene, ma si affida con confidenza piena a Gesù: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Figlio di Dio”. Come dire: non capisco come ciò avverrà, ma mi fido totalmente di te e della tua parola. Così dovrebbe essere la fede di ogni credente davanti al mistero della propria risurrezione. Davanti a Maria, donna fragile, delicata, contemplativa, vulnerabile Gesù non trattiene il nodo di pianto che gli sale in gola e si turba profondamente. Poco dopo, non trattiene più le lacrime e “scoppia in un pianto dirotto” senza imbarazzo e falso pudore. Tanto che i presenti esclamano: “Guarda come lo amava!”.
Maria lo conduce alla tomba del fratello che, come tutte le tombe di Gerusalemme, era una caverna scavata nella roccia e chiusa da una ruota di pietra. Gesù fa togliere la pietra, nonostante le proteste di Marta che teme la puzza insopportabile di un cadavere decomposto; si raccoglie in preghiera per ringraziare il Padre, e poi grida forte: “Lazzaro, vieni fuori!” (v. 43). Il corpo compare vivo sulla soglia del sepolcro, fasciato dalle bende mortuarie. A questo punto non resta che scioglierlo e restituirlo alla sorelle. Quel grido sulla soglia della tomba è come lo squillo di tromba degli angeli della risurrezione dell’ultimo giorno (1 Cor 15,51; 1 Tes 4,16).
Quella voce l’ascolteremo anche noi un giorno, essa ci sveglierà tutti dal sonno della morte. La risurrezione di Lazzaro è l’ultimo dei sette segni registrati da Giovanni nel suo Vangelo. Questi costituiscono un crescendo verso il dono di vita piena, da Cana a Gerusalemme, dall’inizio al culmine della salvezza. La risurrezione di Lazzaro annuncia e anticipa la risurrezione il terzo giorno di Gesù, “il primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18), ma annuncia e garantisce la risurrezione nostra, quella del quarto giorno, quella che ci unirà e ci conformerà a lui. Solo Gesù è risorto il terzo giorno, tutti noi risorgeremo dopo di lui, nel quarto giorno come Lazzaro. L’episodio è anche l’occasione per conoscere la profondità dei sentimenti umani di Gesù, che partecipa con sincerità al nostro dolore, e piange con noi. Così, il terribile mistero della morte viene addolcito dalla sua presenza amica e dalla sua calda compagnia: “Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo sempre del Signore” (Rom 14,8).